4. COMPETITIVITA'

Perché ci si accanisce sulla parola competitività?

L'opinione dell'Autore

S Competitività e meritocrazia sono i due comandamenti fondativi del pensiero capitalista. Che per avverarsi in tutta la loro capacità di attuazione ed espansione hanno necessità di muoversi ed operare in uno spazio illimitato e privo di ostacoli. La condizione indispensabile perché si crei uno spazio con tali caratteristiche si chiama libertà. Libertà per tutti. Arbitrio per pochi. Per quei pochi animati da una irresistibile ambizione e predisposti anche ad uccidere la propria madre se la poveretta dovesse divenire un inciampo lungo il loro cammino. Collettività e collettivismo sono bestemmie per il pensiero capitalista, la società è costituita da individui, è per natura individualista, anzi per l’ex premier inglese Margaret Thatcher (pace all’anima sua) la società non esiste, esistono solo gli individui organizzati in tribù, nazioni e stati e portatori ciascuno di diritti e di doveri. I diritti di pochi e i doveri di tutti. La sua macelleria sociale è ancora oggi il modello esemplare di come non si dovrebbe governare uno stato democratico. Posta questa sintetica premessa, provo ad analizzare la parola competitività prima come vocabolo poi nella sua essenza concettuale. Competitività scaturisce dal verbo competere che indica più significati tra loro diversi. A me interessa quel significato tanto caro al pensiero capitalista da determinare il comportamento generale ed ogni atto quotidiano, fino alla conseguenza estrema di imporlo come valore. Per spiegare quel significato che ci coinvolge nostro malgrado ricorro all’enunciazione di vari sinonimi del verbo competere: rivaleggiare, contendere, disputare, questionare, tenzonare, gareggiare, contrastare, litigare, lottare, combattere, avversare, cozzare, azzuffarsi, battagliare, guerreggiare, ecc… ecc… Come si capisce sono tutti sinonimi evocanti ed implicanti la volontà e l’esercizio della forza e della violenza. E non è un caso che la federazione degli Stati Uniti d’America che riconosce in costituzione il diritto dei cittadini di armarsi, sia il Paese in cui la competitività raggiunge livelli di intensità molto simili ad alcune forme di follia. Raramente follia amica e solidale, normalmente follia ostile ed aggressiva. Insomma l’altro, il prossimo, esiste come nemico o auguralmente come avversario. E poiché l’umanità contemporanea è composta da miliardi di individui e destinata nel suo processo demografico a moltiplicarsi ancora, è ovvio che il singolo individuo non avrebbe come tale alcuna occasione di competere senza associarsi con altri individui. Ciò accade anche nel mondo dello sport, un mondo prevalentemente individualista, in cui l’atleta è nudo davanti allo sguardo dello spettatore nel senso che il suo corpo è trasparente, vestito della sua sola volontà e del vigore dei suoi nervi e dei suoi muscoli. Anche l’atleta ha la necessità di associarsi, di cercare e trovare un ‘organizzazione che lo assecondi nella sua ambizione di competitività e lo affidi alla competenza e alla guida di un buon allenatore. Viene da sé che le varie associazioni di individui che si formano siano l’un contro l’altra armate perché il loro scopo sociale è di competere ed il loro obiettivo finale è di vincere. Nel mondo dello sport la competitività è legittima e accettabile ed è anzi augurabile che ogni ambizione e passione individuali giovanili siano indirizzate e spese in qualche disciplina sportiva. La competitività sportiva è visibile, è trasparente, è disciplinata da regole certe ed ogni atto volontario o involontario che esonda da esse viene registrato e sanzionato. Insomma la meritocrazia è palese, è un dato oggettivo. Nessuno può metter in dubbio, ad esempio, che il giamaicano Usain Bolt sia attualmente il centometrista ed il duecentometrista più veloce al mondo. Non ha rubato il merito. Lo ha conquistato con la potenza della sua volontà e con la sofferenza dei suoi muscoli davanti agli occhi di tutto il mondo. Ha guadagnato molto in danaro e prestigio ma nessuno potrà accusarlo di avere barato e rubato. Nel mondo dello sport la verità è possibile. Anche se non assoluta, come è dimostrato dagli scandali che esplodono sempre più spesso negli ambienti e nei meccanismi di alcune discipline sportive. Il cancro del doping si è purtroppo insinuato nella convinzione e nelle abitudini di alcune società che competono, ad esempio, in una disciplina considerata universalmente una delle più nobili ed amate quale è il ciclismo. Ma perché stupirsi di un fenomeno sempre più diffuso di malcostume e di inclinazioni irregolari e delinquenziali? Quando una disciplina sportiva per casualità o per spinta progettuale finisce nel cerchio morboso dell’occhio di centinaia di telecamere che ne ingigantiscono ed esaltano virtù e vizi, nascono per essa le premesse di una futura attività imprenditoriale o professionale fortunata o sfortunata. La curiosità e l’attenzione di centinaia di telecamere hanno dimostrato in tutte le attività umane la loro forza pervasiva: creare fenomeni mediatici positivi o negativi. Possono inventare geni o mostri, miti gossippari e sex-simbols, programmaticamente o involontariamente, divenendo i veri costruttori o distruttori di ambite fortune economiche e sociali. Basti, ad esempio, pensare al sex-simbol George Clooney, bell’uomo e bravo attore, propagandato e promozionato come mito occidentale del fascino maschile, ma basterebbe indagare un po’ in giro per il mondo per trovare altri esemplari del fascino maschile più quotati di lui. Ma dell’informazione esprimerò più avanti quel che penso. La competitività è un meccanismo perverso e contagiante, opera in tutti i campi dell’attività umana, in tutti i territori del fare. Solletica la vanità, adula l’esibizionismo, incita l’avidità e la cattiveria, scatena a dismisura sproporzionate energie adrenaliniche, cospira all’uso necessario di strumenti di sopraffazione moralmente illeciti e a volte legalmente criminali. Quando si combatte per vincere, soprattutto se la posta in palio è molto elevata e molto desiderata, i vincoli morali e legali si indeboliscono e diventano travalicabili. Potenza del dio danaro e del feticcio del successo. Che ha compromesso duramente, ad esempio, l’immagine considerata planetariamente inattaccabile di una azienda automobilistica come la tedesca Volkswagen. Un evento per me quasi doloroso avendo sempre ammirato la linea sobria ed elegante delle sue auto e la modernità dei suoi motori. Un evento che avrà conseguenze pericolose sul futuro di duecentomila lavoratori dell’azienda del tutto estranei alla causa che ha prodotto il danno. L’ambizione smisurata del vertice dell’azienda, il presidente, l’amministratore delegato e l’intero consiglio di amministrazione, pur di sconfiggere la concorrenza della potentissima azienda giapponese Toyota e diventare leader globale incontrastato del settore automobilistico, ha suggerito e poi imposto alla stessa di contravvenire ingannevolmente le norme ambientali internazionali che prescrivono un limite quantitativo dei fumi di combustione oltre il quale si incorre in severe sanzioni. Il risultato: la Volkswagen deve e dovrà ritirare dal mercato milioni di auto Audi Diesel. Il danno economico e di prestigio si può facilmente intuire e solo fra qualche anno si potrà sapere se è stato irreversibile. Fatta eccezione per il mondo dello sport in cui la trasparenza è possibile e verificabile, in ogni altro territorio dell’attività umana è impossibile o quanto meno opaca, consentendo di introdurre nei suoi ingranaggi, spesso molto interni e misteriosi, giochi inconfessabili di raggiro, di frode, di furto, di complotto. Ciò accade troppo abitualmente nei sistemi capitalistici liberisti dove agguerrite lobbies economico-politiche e consorterie finanziarie d’ogni specie, drogate dai miti del danaro, del successo, del primato e favorite da uno spirito umorale di feroce competitività invadono, condizionano e permeano di sé con i loro influssi distruttivi anche il tessuto sano delle società. Tali comportamenti, che lobbies e consorterie considerano e difendono come legittimi e costruttivi perché producono merci, lavoro, investimenti, sviluppo, dagli avversari sono invece giudicati la causa inequivocabile di vaste e disumane disuguaglianze e povertà. Il dibattito è da qualche anno infuocato e non condurrà a nulla, perché, mentre gli avversari dibattono e protestano civilmente, parole, parole, parole, le lobbies e le consorterie agiscono con qualunque strumento lecito ed illecito occupando tutti i centri di potere che contano. Cari ragazzi, oggi, in questo tempo presente vanno alimentandosi le basi di un futuro molto complesso e difficile per l’umanità. E le mie esperienze di vita sono state così lunghe e culturalmente ricche da impormi una preoccupata disillusione. Le speranze respirate e nutrite dopo la fine della seconda guerra mondiale e le battaglie sociali ed economiche combattute in tutta Europa negli anni ’50, ’60 e ’70 che hanno consentito ai popoli una discreta emancipazione solidale dall’ignoranza e dalla miseria, e hanno cercato di inculcare in ogni individuo la consapevolezza di essere cittadino e portatore di diritti, sono ormai spente e dimenticate. I molto anziani come me, che hanno creduto in un mondo migliore e lottato, ciascuno con la propria specifica ispirazione e competenza, per innestare nella coscienza di tutti le ragioni che ci rendono uguali, sono in parte state demolite dai colpi di coloro che predicano la disuguaglianza e difendono accanitamente i loro egoistici interessi particolari. Alcune conquiste democratiche in tutta Europa, che hanno concretamente migliorato la vita materiale e sociale dei contadini e degli operai, considerati da sempre gli ultimi, appunto i figli di un dio minore come qualcuno li aveva definiti, stanno subendo attacchi sconsiderati e arretramenti di democrazia molto visibili e pericolosi. Certo non potranno più fare arretrare la convinzione, ormai radicata e quotidianamente vissuta, che tutti, indistintamente tutti, siamo detentori di diritti: ad esempio, i diritti elementari al cibo, all’acqua, a un tetto, a un lavoro, all’istruzione, a curarsi, al tempo libero, alla famiglia. Diritti inalienabili eppure negati alla maggioranza della popolazione del pianeta. Voglio augurarmi, cari ragazzi, che qualcuno tra voi si chieda perché ciò accada. E si ponga il problema di capirne le cause. E cerchi di indirizzare il proprio pensiero, le proprie emozioni, la propria volontà verso un cammino di cambiamento nella solidarietà e nella giustizia sociale. Le fondamenta delle società occidentali in cui è nata la democrazia, bandiera di civiltà, cominciano a vacillare: esse mostrano di anno in anno di poggiare su basi fragili. Su terreni franosi. Su progetti errati. Che hanno vincolato la vita e le azioni delle persone al credo dogmatico del proprio interesse. Un principio apparentemente condivisibile perché corteggia e soddisfa l’egoismo individuale, asseconda la componente emozionale della nostra natura. Ma che ha ampiamente dimostrato nei tanti secoli della storia dell’umanità che è causa ineluttabile di conflitti, di guerre, di stragi, di orrori, di enormi e ingiustificate disuguaglianze. Chi sostiene e difende questo credo tanto disumano, divisivo, escludente, che possiamo definire “società e civiltà dell’interesse”, si richiama e ci richiama alla legge di natura che prescrive e pratica la disuguaglianza più assoluta. La legge inesorabile della forza. [devider eight=20] Cari ragazzi, non esiste una legge di natura. La natura è pura energia, attribuirle un pensiero e una coscienza è semplicemente risibile. La disuguaglianza in natura è stata accertata e studiata. Esistono, lo sappiamo bene, animali predatori e animali prede. I primi mangiano i secondi. Ma questa vita animale tanto diseguale è solo frutto del caso. Deriva dalla casuale combinazione chimica dei diversi elementi minerali che il nostro pianeta ha espulso in superficie in milioni e forse miliardi di anni dal suo ventre. Al contrario non è casuale la disuguaglianza tra gli uomini. Il dono straordinario del pensiero, della coscienza, della ragione, toglie all’egoismo e alla voracità dell’essere umano ogni possibilità di invocare attenuanti. Se per gli altri animali l’agire è frutto di elementare istinto di sopravvivenza, i comportamenti dell’uomo scaturiscono da un pensiero e da una scelta culturali. L’uomo può decidere di dare ascolto alla componente emozionale del proprio DNA: le azioni che questa sua scelta solleciterà saranno proiettate verso la piena realizzazione del suo io e la piena soddisfazione dei suoi desideri e delle sue voglie. Il suo punto di vista del mondo e dei suoi simili sarà governato dalle sue passioni. E le relazioni col prossimo saranno contaminate da una inquietante conflittualità e da una sfrenata competitività. La scelta invece di lasciarsi guidare dalla ragione non elimina le proprie emozioni, ne consente il godimento mitigandone gli eccessi prima che offendano la libertà e i diritti degli altri. Ma cosa si può, cari ragazzi, contrapporre alla “società e civiltà degli interessi”? Il pensiero più semplice e più naturale dell’umanità: “la società e civiltà dei bisogni”. Anch’essa risponde ad un pensiero e ad una scelta culturali. Che nel pianeta non hanno successo: è solo una minoranza responsabile dell’umanità, che non vuole competere per non moltiplicare conflitti, violenze e guerre, a credere nella solidarietà, nel bene comune e nella pace. Eppure, cari ragazzi, ammettiamolo: gli individui umani hanno tutti i medesimi bisogni materiali, mangiare, bere, coprirsi, ripararsi dalle intemperie, cacare, pisciare, e così via. E non sarebbe logico secondo voi che tutti, dico tutti, avessero libero accesso alla soddisfazione di questi bisogni che con assoluta ovvietà a tutti noi risultano irrinunciabili? Ma di questo interrogativo parlerò in seguito.