E' una provocazione? Direi di no. È un invito agli adulti a non latitare, a preoccuparsi seriamente della maturazione mentale e culturale dei loro figli adolescenti. A considerare questo loro doveroso compito come una missione. E soprattutto come un’emergenza. Perché questa umanità planetaria in cui siamo immersi nostro malgrado corre veloce, troppo veloce verso un abisso di confusione e di gratuita violenza. Verso un precipizio di disumanizzazione in nome della difesa di interessi e di valori spesso pretestuosi e di dubbia utilità.
Pretendere che gli adolescenti maturino da soli è pura follia. Sottoposti a bombardamenti quotidiani di fatti e notizie di varia natura da parte dei mezzi di comunicazione, fatti e notizie che tanti adulti non riescono ad interpretare correttamente, i giovanissimi potrebbero facilmente essere indotti a comportamenti di pericolosa imitazione e di snaturamento della realtà. Quando si parla di adolescenti si intende alludere a quei giovanissimi che navigano, troppo spesso privi di timoniere, al di sotto della maggiore età. Volendo proprio essere pignoli e orientare più efficacemente l’immaginazione del lettore, alludiamo a quella quantità e qualità di vita che si agita tra i dodici e i diciotto anni di età. Una età delicatissima, in cui tra passioni e sbandamenti ha inizio il processo di formazione del carattere che indicherà il sentiero da imboccare e gli ideali o comunque le scelte da perseguire e coltivare. Un processo di formazione che nel tempo della globalizzazione e di tutte le crisi possibili dell’umanità non può affidarsi soltanto ai desideri e alle speranze individuali, ma deve tenere conto della realtà in cui si opera. Per evitare devastanti disillusioni e perdite di vite preziose. Il che non significa affatto allevare il pensiero e gli stili di vita del “fatti furbo”. Significa al contrario immergersi nel mare della conoscenza, significa sviluppare capacità di analisi e di critica, significa costruire e rafforzare il sentimento e la volontà di cittadinanza consapevole e di percezione credibile dei problemi del mondo.
Quando si parla di cittadinanza nel mondo globalizzato si vuole affermare naturalmente lo status di cittadino del mondo e non solo di Roma e dell’Italia. Non è più tempo di dispute o dialoghi da pianerottolo e neppure provinciali e nazionali. Economia e finanza, i nuovi padroni globali, scorrazzano ogni giorno in lungo e in largo per tutto il pianeta e condizionano pesantemente l’esistenza dei governi, delle nazioni e di ciascuno di noi. La libertà individuale, ammesso che sia compatibile con il genere umano, non appartiene neppure all’uomo troppo ricco e troppo potente, perché la competizione esasperata che in questo nostro tempo dilaga ovunque condiziona e deforma aspirazioni, ambizioni, strategie. Soprattutto di chi vorrebbe conservarle legittime e lecite. In un panorama quasi disperante della civiltà aggrapparsi all’ottimismo emozionale è del tutto infantile e improduttivo. Occorre l’ottimismo della volontà, l’unica forma di coraggio che ha solide fondamenta nella coscienza e nella conoscenza e coltivi maturi ideali del bene comune. Il bene comune planetario, non quello di quartiere. Perché i bisogni naturali sono gli stessi in ogni membro della comunità umana e sono irrinunciabili. Pena il deperimento biologico fino alla morte. Quanto sopra espresso potrà apparire troppo pessimista, troppo negativo, forse disfattista, ma basta registrare il volume impressionante di morti violente che giornali e televisioni quasi ogni giorno ci scaricano addosso, per capire che il pessimismo verbale è troppo blando rispetto al pessimismo vissuto.
Guerre, attentati, decapitazioni, naufragi e alluvioni irresponsabili, assassinii privati, individuali e di gruppo, incidenti mortali, genocidi sospetti; e potremmo continuare nell’elenco delle forme premeditate o colpose di violenza e di ferocia. Per concludere con il simbolo più raccapricciante di violenza colposa che uccide milioni di bambini: la fame. Che umanità è mai questa incapace di porre un freno ai propri istinti e un confine ai propri interessi? Quale spazio può avere la ragione, questo dono naturale di cui l’uomo potrebbe servirsi e godere, nello sforzo disumano di spegnere gli incendi emotivi e mitigare i conflitti? E quale significato e legittimità in questo nostro tempo impazzito possiamo ancora attribuire alla speranza? Siamo costretti di nuovo a dare una energica pedata a vuoti sentimentalismi e inerzie moderate e ad affidarci con lucida determinazione all’ottimismo della volontà. Ricordandoci che la Rivoluzione Francese è dietro l’angolo e che la Marsigliese è lì ad ammonirci di essere ancora un efficace inno di lotta. Questa brevissima introduzione al Manifesto ha il senso di sollecitare il lettore ad una lettura non superficiale dei perché a cui, se vorrà, potrà contribuire con la propria opinione o anche suggerendo in aggiunzione qualche nuovo perché. L’Autore del Manifesto, come è logico, sarà il primo ad offrire ad ogni perché la propria opinione. Scusandosi di avere sino ad ora usato il plurale “noi”, che non ha affatto voluto sottintendere il plurale maiestatis, ma semplicemente ha voluto rammentare a se stesso il contributo di opinioni e visioni non dissimili da parte di parenti, amici e conoscenti.
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