6. MERCATO

Perché si e’ diventati prigionieri della parola “mercato”?

L'opinione dell'Autore

T utti capi, nessuno capo. Tutti vincitori, nessuno vincitore. Tutti liberi, nessuno libero. Tutti imprenditori, nessuno imprenditore. Tutti ricchi, nessuno ricco. Tutti proprietari, nessuno proprietario, tutti cittadini, tutti lavoratori, tutti uguali, tutti solidali. Queste sono le basi imprescindibili di una democrazia orizzontale. La democrazia in cui si possa senza inganno affermare che “il popolo è sovrano”. Una democrazia di individui liberi la cui libertà non diventa mai arbitrio: perché la coscienza di ciascuno si è potuta dissetare da giovanissima, con l’aiuto dell’istruzione pubblica, alla fonte culturale del bene comune; perché le vocazioni e le energie personali hanno potuto liberamente esercitarsi nei valori della solidarietà e della coesione sociale. Utopia? Può darsi. Anche la democrazia imperfetta in cui viviamo è stata una conquista utopica: nessuna persona ragionevole qualche secolo fa l’avrebbe creduta possibile. E chi nella seconda metà dell’ottocento ha creduto realizzabile l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti d’America? Soltanto la tenace volontà utopica del Presidente americano Abramo Lincoln poteva raggiungere questo traguardo quasi impossibile di umana civiltà. L’ultimo millennio dopo Cristo, che ha un impagabile debito di riconoscenza culturale verso il mondo ellenico e il mondo romano, ha posto le fondamenta della modernità non grazie alla sua storia insanguinata da stolide e irriducibili ambizioni, fanatismi, menzogne e crudeltà, il cosiddetto patrimonio genetico della follia del primato degli egoismi e degli interessi, ma grazie al genio assoluto di individui come Copernico, Galilei, Keplero, Newton, Einstein. È la scienza, cari ragazzi, che ci ha proiettati nella modernità e nel futuro. E la tecnologia è soltanto una sua filiazione. È la matematica, è la fisica, è l’astronomia, e in parte la filosofia, che ci stanno dimostrando e insegnando che il nostro pianeta non è neppure un puntino nell’immensità del cosmo di cui fa parte. E ci suggeriscono di moderare e frenare gli eccessi di vanità, narcisismo, egocentrismo, avidità, aggressività, inimicizia, sottolineandone la stupidità e l’inutilità: il genere umano è ancora una poltiglia di pulsioni emotive incapace di lanciare nello spazio cosmico un’onda vibratoria di un qualche significato positivo. Utopia? La società e civiltà dei bisogni è l’unica forma di convivenza che può salvare l’umanità dalla millenaria barbarie. È l’unica in grado di fondare la democrazia orizzontale. Ed è realizzabile soltanto con un salto di qualità culturale. Utopia? Ne parlerò in seguito nel nono perché tentando di individuare dubbi e certezze. Qui, in questo perché devo occuparmi del presente: innanzitutto cosa è il “mercato”? Con questa parola, che nel tempo sino ai nostri giorni è andata mostruosamente dilatandosi ed imponendosi agli esseri umani come una divinità del bene e del male dai volti infiniti, si indica una realtà complessa e necessaria: è un’idea di società, un progetto, è creatività, è lavoro, è competitività, è un groviglio di interessi individuali e collettivi, è produzione, è distribuzione, è consumo, ed è tante altre cose che impegnano positivamente o negativamente intelligenze e sensibilità. Io, nonno italiano ottantenne, ho maturato con fatica e dolore la convinzione incrollabile che il sistema liberale di mercato in cui siamo immersi e nel quale tutti rischiamo di affogare, questo sistema soggiogato e dominato dalla sua mezza sagoma malefica, da questa sua metà faccia che esibisce il ghigno diabolico della divinità del male, non faccia altro che perpetuare la barbarie sin qui vissuta, fonte di tanta sofferenza e disperazione per almeno i due terzi della popolazione del pianeta. Una barbarie appena arginata e mitigata dagli sforzi sovrumani che segnano profondamente l’altra metà della sua sagoma, questa faccia mite di una divinità del bene che consente al sistema di non smarrire irreparabilmente il senso della coscienza e della responsabilità. Mi sforzerò qui di rappresentare vizi e virtù della duplice personalità genetica del libero mercato, fiore ambiguo e accanitamente protetto dal mondo della finanza e dell’economia occidentali. Un mondo esclusivo costituito dalle grandi banche private, da poche decine di potenti multinazionali private della finanza, della produzione di beni e servizi di largo consumo, della distribuzione globale; costituito dalle borse, anch’esse private, dai centri privati di ricerca strategici e monopolisti, dai robusti centri internazionali privati della comunicazione e dell’informazione e da poche altre realtà private finanziarie e globali. Una ristrettissima consorteria dell’interesse, ossessionata dagli istinti malefici del denaro, del profitto e del potere, sempre in guerra con il resto del mondo e spesso in conflitto anche tra di loro, troppo inclini ad escogitare strategie e strumenti di sopraffazione e di annientamento pur di prevalere. La loro arma più subdola da agitare contro il resto del mondo, che considerano un nemico da tenere sotto ricatto e sotto controllo ma da lusingare perché è un necessario consumatore, è la parola “libertà”. Analizziamo questo magico feticcio: “LIBERTA’!”. Con questo magico vocabolo la consorteria elitaria non allude affatto alla libertà dei popoli, ma alla libertà dell’individuo. I popoli consapevoli della forza delle proprie ragioni possono essere difficili da controllare. La storia del Vietnam del Nord ce lo ha dimostrato, l’individuo si può invece controllare con facilità. Solidarizzare, protestare, combattere per un popolo invaso e soggiogato con la violenza da un altro popolo o dagli eserciti di un tiranno è impegno doveroso e lodevole: innalzare la bandiera della libertà è in questo caso azione da condividere senza riserve. La parola “libertà” ha il suono e il senso della sua assoluta legittimità. Mobilitarsi, invece, come il libero mercato inquinato fa, per la libertà piena dell’individuo è chiaramente strumentale: l’individuo solo è vulnerabile e indifeso, è preda facile degli appetiti del mercato malato e va sorvegliato e manipolato affinché resti solo; affinché non si attivi, per difendersi, in alleanze compatibili e suscettibili di trasformarsi in entità comunitarie più o meno vaste, più o meno pericolose. E qui occorre fare chiarezza: a differenza delle potentissime multinazionali soprattutto informatiche e finanziarie che, essendo globali, sfuggono con spavalderia alle leggi e ai controlli dei singoli stati e governi, l’individuo non può sfuggire alle regole di cittadinanza e di appartenenza al suo stato se non in casi limitatissimi e attraverso operazioni macchinose di illegalità. Per l’individuo non si potrà mai parlare di libertà assoluta: la sua sarà sempre una libertà condizionata. Bene. Quando vedete e ascoltate, cari ragazzi, una persona molto influente e potente innalzare con perentorietà la bandiera della libertà siate diffidenti della sua buona fede: nove volte su dieci sta difendendo il suo interesse a salvare e accrescere i suoi beni materiali e gli onori conquistati. Quale libertà, cari ragazzi, può avere un individuo che soffre la fame, il freddo, la solitudine, la malattia, il disprezzo e l’indifferenza altrui, soprattutto di chi è serenamente al riparo da tutti questi mali? Credetemi, ragazzi, questi mali colpiscono e affliggono moltitudini vastissime di individui sparse lungo tutti i territori del pianeta. Ho spesso ascoltato con inquietudine individui dall’aspetto florido, individui sazi e soddisfatti, accusare chi soffre di non avere voglia di lavorare, di temere la fatica. Come se sopportare ed opporsi ai mali indicati non comportasse il peso della grande fatica del vivere. Non mi sono quasi mai stupito di accuse tanto superficiali: sono in generale pronunciate da individui contrari o incapaci a sottoporsi autonomamente a seri esercizi di immedesimazione. Peccato per loro: diventerebbero più comprensivi ed umani, insomma migliori. Ma chissà quanti individui sazi o posseduti da se stessi ignorano o fingono di ignorare che ogni giorno milioni di bambini muoiono di fame? È possibile che anche quei bambini non abbiano voglia di lavorare? Sappiate, ragazzi, che molti di quei bambini nella loro breve vita hanno conosciuto solo la sofferenza. E diciamocelo allora, cari ragazzi, senza infingimenti e ipocrisie, che la cifra identitaria dominante del libero mercato è negativa, sgorga dalla sorgente avvelenata dell’egoismo e dell’ingordigia, che scatena lotte assurde, feroci, tendenti con qualsiasi mezzo legale o illegale a sopraffare o ad abbattere il concorrente. Meglio usare il termine nemico. Perché la cultura materiale del denaro, del profitto, del possesso, della conquista della egemonia sugli altri, non conosce concorrenti o avversari, ma solo nemici. E i nemici si combattono e si uccidono. I concorrenti e gli avversari esistono ormai solo nel mondo dello sport. Nel mondo delle discipline povere. Finché resteranno povere. Perché assistiamo impotenti alla diffusione epidemica del virus del danaro nel corpo infettato delle discipline sportive ricche. Questo sistema del capitale incontrollato ormai è una metastasi inarrestabile che corrode e distrugge ogni cellula di dignità delle nostre società. Ciò che sto affermando, cari ragazzi, capisco che possa apparirvi generico e ingiusto. State forse pensando che questo nonno italiano ce l’abbia con il mondo intero per risentimenti personali. Ho già avuto modo in alcune pagine precedenti di comunicarvi la mia personale serenità di giudizio frutto di esperienza e bisogno di verità. Che mi consente di essere in buona condivisione con l’affermazione di un ottimo regista scomparso del teatro italiano di prosa: Giancarlo Cobelli. Drammaticamente Cobelli nella sua maturità di artista degli ultimi decenni del novecento esplose in una invocazione paradossale ma intimamente vissuta: “Fermate il mondo, voglio scendere”. E il mondo di Giancarlo Cobelli non era ancora il pessimo mondo del 2017 e dei prossimi anni venturi che l’umanità sta cinicamente consegnando ai propri figli e nipoti. Bene. Cerco di addentrarmi con esempi concreti nei meandri opachi del libero mercato malefico. E inizio da settori e specialità insospettabili di critica severa e mancanza di trasparenza: le imprese del lusso. Imprese che non potrebbero nascere, operare e prosperare senza il sostegno di abbondanti risorse economiche e di simpatie forti ed efficaci. In queste imprese tutto ruota intorno al valore della creatività che è fuor di dubbio un valore personale che non tutti posseggono. Da qui l’ammirazione e il seguito di cui i creativi godono a livello internazionale. Primi fra tutti i creativi italiani e francesi. Alludo ovviamente agli stilisti del tessuto e della moda. Il tessuto che si indossa e che il talento dello stilista modella sulle forme curvilinee del corpo femminile. Trascuro volutamente la moda maschile che mi è sempre parsa priva di originalità e di grazia. E la ragione è del tutto naturale. Il corpo della donna, a differenza del corpo dell’uomo, con le sue rotondità disegna, muovendosi nello spazio, linee morbide ed eleganti che esaltano l’abito che indossano. E ciò accade anche quando il corpo femminile mostra evidenti imperfezioni. Insomma non credo di esagerare affermando che il corpo della donna sia una affascinante opera d’arte. Ma qui parte la mia prima critica ai creativi della moda: rifugiarsi dietro le forme quasi perfette delle loro modelle. Che certo esaltano ed euforizzano lo spettacolo delle sfilate, ma illudono tante spettatrici che vi assistono. Che desiderano in cuor loro, scegliendo abito e modella, indossare la loro scelta suscitando la stessa ammirazione riservata alla loro preferita. Questa mia prima critica ai creativi in fondo è blanda e benevola: ricordo volentieri il creativo Christian Dior, la cui fantasia, la cui affabilità e il cui garbo genuini spalancavano orizzonti di sogno e di unicità agli occhi delle sue ammiratrici e clienti; e menziono senza sforzo la qualità creativa dello stile classico-moderno, inconfondibile, di Giorgio Armani. Bene. Questi creativi, suscitatori di emozioni e di illusioni, cavalcano con spensierata leggerezza il culto della loro personalità costruendo imperi materiali più o meno vasti in perfetta sintonia con il sistema capitalistico del danaro e del profitto. Questi creativi non donano i frutti della loro creatività a tutte le donne che vivono sul nostro pianeta. I frutti dei loro alberi dei sogni sono riservati alle caste femminili del potere mondiale, sono frutti esclusivi creati e coltivati con amore e rigore per soddisfare le inesauste vanità delle donne della cosiddetta buona società borghese ormai ingoiata e digerita dal capitalismo globale ed assoluto. In sintesi: il creativo della moda e del lusso senza limiti è coscientemente schierato contro la maggioranza assoluta del genere femminile, contribuendo a rafforzare senza apparente violenza la già mostruosa disuguaglianza umana e sociale dei nostri giorni. E che dire poi delle forme brutali, ignote ai più, con cui i creativi accumulano grande parte delle loro ricchezze? Chi può credere che le loro ricchezze, a volte miliardarie, siano dovute ai loro soli sforzi intellettivi e alla loro fatica materiale individuale? Riuscite ad immaginare, cari ragazzi, un creativo della moda e del lusso che, dopo aver inventato un nuovo modello e avere scelto il tessuto su cui disegnare e costruire il nuovo abito, da solo possa tagliare, assemblarne i vari pezzi, cucirli, stirarli, provarli, eventualmente modificarli, e poi fare lo stesso lavoro, da solo, con altri migliaia e migliaia di capi? Viene da sé che per soddisfare le vanità e i capricci delle sue affollate schiere di clienti esigenti e facoltose, il creativo debba giocoforza servirsi del lavoro e del sacrificio di centinaia di migliaia di operaie ed operai assoldati soprattutto in vari Paesi asiatici con la Cina in prima fila. Dunque: il creativo produce anche lavoro!! È un benemerito dell’umanità!! Certo: produce lavoro ma precario, totalmente privo di tutele e con paghe umilianti. E il creativo del lusso è consapevole della situazione di sfruttamento inaccettabile e non pare avere problemi di coscienza. Sa che se desse ascolto alla coscienza non potrebbe arricchirsi. Diciamo di più: se fosse costretto a costruire materialmente da solo il dono della sua creatività, questa sua grande qualità finirebbe abbandonata tristemente in un cassetto. Nessun individuo ambizioso può attribuire solo a se stesso le sue conquiste. Per realizzarsi ha ed avrà sempre bisogno dell’aiuto degli altri. Ma la società elitaria del capitale lo lusinga e lo acclama attribuendo a lui e soltanto a lui tutti i meriti della costruzione del suo impero. E lo accoglie ed accoglierà nel suo mondo esclusivo gratificandolo ed esaltandolo con prestigiosi riconoscimenti. È in fondo la strategia subdola per conservare e consolidare il proprio potere: lanciare il messaggio bugiardo, arrogante, malefico che chiunque dimostrerà di meritare sarà l’artefice della sua promozione sociale. E sappiamo ormai senza più illusioni che almeno i due terzi dell’umanità non avrà in tutta la durata della propria esistenza la possibilità di dimostrare alcunché. Sappiamo anche che la consorteria dominante (molti italiani appartenenti a quel mondo amano chiamarla establishment) si affanna a scovare e a mostrare con entusiasmo ed enfasi, al popolo, quelle poche persone fortunate che venendo dal basso e lavorando duramente (anche onestamente?) hanno conquistato alti traguardi. Anche i boss mafiosi hanno creato imperi e noi sappiamo con quali metodi. Che siano esistiti ed esistano individui che hanno conquistato l’olimpo con le loro sole forze creative e in forme trasparenti non c’è da dubitare. Un esempio per tutti: Pablo Picasso, che ha potuto godere a lungo l’olimpo da vivo. Ma sono eccezioni e come tali vanno considerate. Le eccezioni, si dice, non fanno testo. Occorre però ricordare che nel mondo delle arti la creatività solitaria è la norma. Bene. Quanto ho espresso sui creativi della moda può essere tranquillamente affermato su molti altri creativi che operano in altri settori della vita sociale. La nautica del lusso, quella che progetta e costruisce su ordinazione navi da diporto di stazza oceanica per magnati e avventurieri della finanza e dell’industria, per sultani e sceicchi, per capi di governo e dinastie aristocratiche, insomma per una comunità del potere ancora più ristretta, più esigente, più esclusiva. Navi a motore e velieri di concezione e stile quasi avveniristici e di bellezza inconsueta, i cui interni sono arredati con meticolosa raffinatezza e completezza di offerta. Per i molteplici gusti degli ospiti. In sintesi, simboli di potenza economica che hanno il non dichiarato scopo di intimorire il resto dell’umanità. Questi personaggi, che vivono a distanze siderali dai loro simili favorendo il racconto della loro leggenda, possono permettersi di circumnavigare con i loro possenti e lussuosissimi aerei l’intero globo terrestre in alcune decine di ore. E fregiarsi spesso, con le loro elemosine, del titolo di benefattori dell’umanità. L’individuo comune dovrebbe chiedersi: è naturale, razionalmente concepibile e accettabile che fra un uomo e un altro uomo possa esistere una differenza tanto cosmica? Eppure questi personaggi extraterrestri vivono sul nostro pianeta. E credo che cachino come ogni altro essere umano. Speriamo che prima o poi qualche illustre medico ci comunichi che la loro merda sia di materia superiore. Che magari sia profumata. E chissà, chimicamente elaborabile e distillabile per ottenere preziose fragranze da esporre nelle vetrine del mercato di eccellenza. Ma qui scendo di un paio di gradini sotto la coltre di nubi che separano noi poveri mortali dal cielo azzurro ed assolato di quegli esseri immortali: per puntare il mio cannocchiale critico e vigile sulla esistenza privilegiata dei cosiddetti archistar. Alludo a quelle poche decine di architetti creativi che hanno sfondato con il proprio talento il muro pesante dell’anonimato. C’è da chiedersi, cari ragazzi: quanto del loro successo è da attribuire al loro intelletto, e quanto alla fortuna? Renzo Piano, che io stimo come archistar e come uomo, di recente ha dichiarato con modestia che la sua opera prima, ideata con il collega Rogers, il Beaubourg, nota anche come Centre Georges Pompidou dal nome del Presidente della Repubblica francese del tempo, opera prima costruita dal 1971 al 1977 nel cuore di Parigi, ebbene Renzo Piano ha dichiarato molto divertito di essere ancora oggi nel terzo millennio stupito non di avere ideato con Rogers il Beaubourg ma di avere ottenuto che l’opera originalissima fosse accettata e costruita. Candidamente ha detto: “sono ancora oggi (2017) stupito che ce l’abbiano fatta fare”. Una costruzione dopo quaranta anni ancora discutibile e discussa. Per la cui realizzazione la fortuna ha svolto un ruolo decisivo. Al di sopra di ogni dubbio artistico s’impone invece quell’emozionante e prezioso gioiello architettonico che Piano ha ideato e costruito a Roma: l’Auditorium di Santa Cecilia. Non conosco tutte le opere che Piano ha creato in giro per il nostro mondo, ma sono convinto che l’Auditorium di Roma sia uno dei traguardi più eccelsi e indimenticabili della sua arte. Bene. Senza nulla togliere alla creatività e alla professionalità di Renzo Piano, a voi ragazzi chiedo un’opinione sincera e non superficiale: se in passato non ci fossero state e in futuro non dovessero esserci lavoratori che con il loro lavoro e la loro fatica, pietra su pietra, elemento su elemento, struttura su struttura, hanno reso e renderanno concrete, visibili, ammirabili e praticabili l’idea creativa e la fatica intellettiva dell’architetto, cari ragazzi, che fine avrebbero fatto e farebbero le fantasie, i sogni, le speranze, le competenze dell’artista? Sarebbero finite e finirebbero archiviate in un cassetto o al macero. E allora perché questa pessima società attribuisce tutti i meriti, gli onori, i ricchissimi compensi soltanto al creativo attribuendogli la medaglia di archistar, innalzandolo nell’olimpo dell’eccellenza e onorandolo con il titolo di stella dell’arte architettonica? Nell’antica Grecia gli dei dell’Olimpo, gli immortali, a loro capriccio e con giudizio insindacabile periodicamente innalzavano qualche mortale illustre al rango di semidio accogliendolo stabilmente nel loro regno stellare. Zuckerberg, l’ideatore e padrone di Facebook, collocato al sesto posto della ricchezza planetaria con i suoi quarantacinque miliardi di dollari di patrimonio personale, ha manifestato il proposito di voler combattere e sconfiggere tutte le malattie che colpiscono, affliggono e spesso uccidono gli esseri umani. Sta lavorando intensamente con i suoi più stretti collaboratori per realizzare questo suo ambizioso e meritevole progetto. Che dite ragazzi? Non credete anche voi che Zuckerberg sia sospettabile di futura immortalità? E che dire poi dei suoi colleghi e co-fondatori della loro esclusiva città, Silicon Valley, la città dell’avvenire, del futuribile, della globalizzazione. Più che una città si potrebbe definire uno stato nello stato. Lo stato Silicon Valley adagiato o meglio radicato nel territorio meridionale dello Stato della California. Lo Stato degli intoccabili e ineguagliabili creativi della comunicazione globale, padroni indiscussi del libero mercato globale per la potenzialità e facilità con cui riescono ad incassare, investire e spostare enormi risorse economiche eludendo il fisco dei tanti governi. Questi creativi individuali hanno capito e saputo sfruttare la secolare pazienza indagatrice degli scienziati del cosmo le cui osservazioni,, i cui studi, le cui riflessioni hanno prodotto la teoria dei quanti ossia la scoperta dell’esistenza e della formazione di campi elettromagnetici costituiti da pacchetti di energia (quanti) composti ciascuno da miliardi di particelle elementari (elettroni) che alla velocità della luce viaggiano nel plasma cosmico (onde elettromagnetiche). Avere intuito che segni, fonemi, scritture, immagini, discorsi, colori, musiche, foto, filmati, storie e storia, informazioni e comunicazioni potessero, viaggiando alla velocità della luce, trasferirsi in tempo reale da una scatoletta tecnologica in un’altra in ogni angolo del nostro pianeta, avere intuito tutto ciò non è nel DNA di ogni individuo. Onore al merito dunque! Ma anche i creativi della comunicazione globale, cari ragazzi, non sfuggono ai vizi e alle colpe che sporcano senza scampo il valore della creatività opulenta: il profitto e la disumanità che ne consegue. Perché anche costoro, come tutti gli altri creativi che accumulano smisurate ricchezze ed erigono mura invisibili intorno al loro insaziabile potere, prosperano sulla fatica e sul miserabile guadagno di milioni di donne, uomini e bambini, insomma sul sacrificio per se stessi improduttivo di milioni di loro simili. Come potrebbero arricchirsi e creare imperi finanziari se dovessero da soli, con le sole dieci dita delle loro mani, assemblare le varie componenti di quelle miracolose ed insieme infernali scatolette dai nomi per nulla suggestivi e implacabilmente imposti in una lingua monopolistica e a noi estranea? Mi piacerebbe che qualcuno di voi, cari ragazzi, mi convincesse che la creatività debba avere licenza di imposizione e di sfruttamento degli altri esseri umani. Senza il lavoro di assemblaggio di miliardi di mani altrui anche il talento dei creativi informatici finirebbe tristemente abbandonato in un cassetto. È quasi superfluo (ma preferisco ripetermi) ribadire che: ciascuno di noi ha bisogno della vicinanza e dell’amicizia dei propri simili; che nessun individuo possa considerarsi onnipotente e nutrire commiserazione o disprezzo o inimicizia per gli altri; che il rispetto del lavoro altrui sia un dovere non derogabile soprattutto quando produce vantaggi al proprio lavoro. E qui, ragazzi, vi sollecito a pronunciare un sonoro “AMEN”. Le frasi di cui sopra, pronunciate da me producono un effetto comico, lo so, inducono alla risata o allo sberleffo. Ed è un effetto che in fondo non mi dispiacerebbe. Ben altra reazione si verifica quando a pronunciare quei concetti, come spesso fa, è un personaggio eccezionale ed unico come Papa Francesco. Il cattolico in mala fede a cui sono rivolte instancabilmente le sue esortazioni non reagisce: semplicemente fa finta di non avere sentito. Bene. Ancora a proposito dei creativi informatici, non io, ma Antonio Garcia-Martinez, uno dei più importanti collaboratori di Zuckerberg e la mente del reparto advertising di Facebook per due anni, nel suo libro “Chaos monkeys” definisce Silicon Valley: “un mondo barbaro, una specie di stato di natura dove si sottomette la concorrenza o si soccombe. Senza vie di mezzo”. E ancora: “se non creiamo noi la cosa che ucciderà Facebook, lo farà qualcun altro”. E ancora: “internet non è un luogo amichevole: le cose che non rimangono rilevanti non lasciano nemmeno rovine: spariscono del tutto”. E ancora: “se una startup non promette di moltiplicare almeno per dieci il ritorno che si può avere dall’investimento iniziale – e quindi ripagare gli investitori dei soldi persi altrove – è scartata in partenza”. E ancora: “il fiuto creativo si perde una volta che le startup si consolidano in colossi globali, e questo è il motivo della maggior parte delle acquisizioni di piccole realtà”. E ancora: “se la tua startup è promettente, i colossi vogliono la piccola squadra di talenti che hai saputo mettere insieme. Molte delle acquisizioni sono in realtà delle assunzioni di gruppo”. E ancora: “se a essere comprata è una startup già sulla cresta dell’onda, può anche trattarsi di una mossa difensiva, per addomesticare chi minaccia di diventare un rivale temibile”. E qui Giuliano Aluffi, lo splendido giornalista del settimanale L’Espresso che con questa sua intervista a Martinez mi ha offerto l’occasione di rafforzare la mia convinzione negativa di quel mondo, pone all’intervistato l’interrogativo finale: “e quando il trucco non può riuscire perché il rivale non è acquistabile?”. “Allora si scatenano le guerre” risponde Martinez. Bene. Mi tocca a questo punto chiudere questa mia brevissima analisi di quel territorio esclusivo abitato da barbari con una amara considerazione: purtroppo anche il resto dell’umanità, consentendo a quei barbari di accumulare ricchezze e potere incommensurabili, ha la sua imperdonabile colpa non diversa da quella che consente alle varie criminalità organizzate di espandere la loro influenza criminale attraverso l’altrui uso irrazionale delle droghe. Ma il libero mercato non si esaurisce con i vari creativi che abbiamo raccontato e quindi, cari ragazzi, la vostra attenzione, se non siete troppo stanchi ed annoiati, mi è ancora preziosa e gradita. Ho il dovere a questo punto di parlarvi di alcune forme di violenza economica, psicologica, fisica, morale, che attraversano e deturpano il legittimo e legale svolgimento del mercato. Violenza che ha la sua prima causa proprio in quel semplice ed apparentemente innocuo aggettivo: “libero”. Che il mercato esista e debba esistere è ovvio: bisogna nutrirsi; e per nutrirsi bisogna produrre alimenti di cui cibarsi. Nel peggiore dei casi per sopravvivere. Gli esseri umani sono quindi tutti consumatori, perché tutti, per non morire, devono nutrirsi. Non tutti, invece, sono produttori. Per produrre bisogna scegliere ed intraprendere un’attività che produca beni di consumo da immettere nel mercato. E qui iniziano i problemi di natura economica e psicologica, perché non tutte le persone che vorrebbero intraprendere hanno risorse sufficienti o semplicemente le risorse minime per farlo. Qui si pone il primo ostacolo che la società del capitale oppone al diritto di uguaglianza dei cittadini: qui si frantuma miseramente il principio democratico delle pari opportunità di partenza. E si comincia a sospettare che il sistema organizzativo della società in cui l’individuo vive non rispetti i principi costituzionali che dichiarano che tutti i cittadini sono uguali nei diritti e nei doveri. Ciò accade impunemente in Italia, nel nostro paese, dove la maggioranza dei principi della costituzione dopo settant’anni dalla loro nascita non sono mai stati attuati. E per quale motivo? Per la inoppugnabile ragione che la nostra democrazia è troppo fragile e che la libertà non è di tutti e per tutti. Ci ammonisce l’elementare evidenza che nel sistema occidentale in cui ci muoviamo domina la cultura feroce, brutale e volgare del profitto e del danaro: ossia dell’interesse personale. Ecco: in sintesi dominano la logica e la prassi dell’uso della forza. Chi più ha, vince. Chi più è, si esalta e si comporta come se fosse onnipotente. È ovvio che ci sono le eccezioni. Ma non fanno testo. In un simile contesto, già di per sé drammatico ed ingiusto, avere un mercato libero significa sottoporre il più debole al ricatto costante e mafioso del più forte. Con la facile conseguenza di dovere accettare compromessi strangolatori per non scomparire, per non morire. Come si dice? Il dominio della legge della giungla. Vale qui sottoporvi un interrogativo, cari ragazzi. Nel mondo sportivo voi sapete che esistono per ogni disciplina regole rigorose la cui trasgressione viene severamente punita. In specie nel settore agonistico. Prendiamo ad esempio il mondo della boxe: riuscite ad immaginare, cari ragazzi, un incontro di pugilato tra un peso massimo ed un peso piuma? Nessuna federazione pugilistica al mondo permetterebbe un incontro simile. Ebbene, ciò che è rigorosamente vietato nello sport, pena la squalifica a vita, nella vita quotidiana accade con scandalosa frequenza, per lo più in forme occulte. Le leggi italiane che disciplinano i rapporti di libera concorrenza e di leale competitività non garantiscono la dovuta trasparenza delle azioni. La conseguenza è l’inquinamento, sarebbe più vera la parola avvelenamento, di un mercato che da più voci si grida e si difende ostinatamente come libero e legale. Ma ormai anche i bambini hanno capito che il mercato troppo spesso non è né libero né legale. Basti pensare alle profonde infiltrazioni nel mercato ortofrutticolo da parte delle organizzazioni criminali che hanno quasi monopolizzato la vendita e la distribuzione delle merci all’ingrosso. Vari servizi della pubblica e privata informazione e varie inchieste della magistratura ci hanno edotti che il mercato ortofrutticolo di Fondi in provincia di Latina, dicono uno dei più grandi d’Europa, è luogo di sotterranea e spietata violenza. Gli unici a guadagnarci una miseria e spesso a rimetterci i costi di produzione sono i produttori delle merci ai quali viene imposto il “prendere o lasciare”. I costi di alcune merci nei passaggi vari di distribuzione partono da uno 0,20 o da uno 0,30 centesimi di euro al chilo dei produttori ad un 3,50-4,00 euro al chilo dei consumatori, mettendo a serio rischio la capacità sia di produzione che di acquisto. Queste sono le conseguenze evitabili del sistema culturale degli interessi e del libero mercato. Nel 1933 fu abolito negli Stati Uniti il proibizionismo,la norma che vietava ai cittadini di produrre, commerciare e consumare clandestinamente alcolici. L’abolizione ebbe efficacia, ma non fu efficacia piena, per il fatto elementare che il sistema sociale americano quasi del tutto si affida ai rapporti tra gli individui e al primato del privato sul pubblico. E ciò per una concezione malintesa della parola libertà. In un paese democraticamente maturo lo slogan arrogante: “io sono un uomo libero e faccio quel che mi pare!” non ha alcuna possibilità di affermazione. Perché il comune denominatore culturale di quel paese sono il bene comune e il valore pubblico della società come comunità uguale e solidale. In un paese democraticamente maturo il problema della disoccupazione è rigorosamente contenuto perché il lavoro è espressione della dignità dell’essere umano ed è quindi una priorità inderogabile per la comunità di appartenenza. Il disoccupato non per sua colpa è risarcito dalla collettività con un sostegno economico di cittadinanza che protegge il suo status di cittadino. In un paese democraticamente maturo non è concepibile la stridente, disumana contraddizione di case senza gente e di gente senza casa. È una bestemmia tollerare l’esistenza di migliaia di abitazioni vuote e di migliaia di senzatetto. Questi sfortunati cittadini esposti nella loro tragica vulnerabilità ad ogni prevedibile ed imprevedibile rischio quotidiano, compreso quello di perdere la vita per necessità naturali insoddisfatte o per avere subito qualche atto di violenza volontario o involontario, ebbene questi sfortunati e sfortunate per la società dell’interesse sono ex cittadini, avendo perduto il loro status per mancanza di ogni titolo di riconoscibilità. Da questa penosa e incomprensibile realtà, troppo diffusa nel nostro pianeta, è scaturita la giusta ribellione di Papa Francesco che in tutte le sedi istituzionali più importanti del pianeta ha riversato la piena della sua legittima e umana indignazione. Davanti al Congresso degli Stati Uniti a Washington, riunito in seduta plenaria per riceverlo ed ascoltarlo, Papa Francesco ha ammonito con passione e severità i governi e la politica: “nessun essere umano può essere considerato e trattato come uno scarto!”. In un paese democraticamente maturo non è giustificabile la coesistenza di istituti di istruzione superiore privati e di prestigiose università private (realtà culturali entrambe consentite solo ai ricchi) con una scuola pubblica culturalmente modesta e mal finanziata destinata al resto della popolazione. Intollerabile poi che alcune realtà private autosufficienti godano anche di interventi economici pubblici. In un paese democraticamente maturo è disumano e scandaloso che milioni di cittadini siano esclusi da una rete di protezione sanitaria proporzionata alle loro emergenze di salute. Ciò accade in forme brutali, ad esempio, negli Stati Uniti dove tutto è mercato libero e selvaggio, dominato dall’interesse privato, dall’affare commerciale, dal profitto illimitato, dalla speculazione spesso illegale e immorale. Il cittadino americano per essere sanitariamente garantito e protetto è costretto a sottoscrivere un’assicurazione privata. Se ha danaro, si assicura ed è tranquillo. Se non ha danaro, come si dice a Napoli, si fotte. Purtroppo questo sistema d’oltre oceano che oltraggia ogni senso di umanità sta contagiando in parte la più civile Europa. E noi europei, cari ragazzi, che crediamo di essere persone più civili, con il nostro impegno tutti dobbiamo impedire che il contagio ci sospinga indietro verso un passato di barbarie. Perché atti di barbarie sono quasi ogni giorno già presenti nel vissuto delle nostre società. E la reazione delle istituzioni statali e delle collettività sociali è troppo debole e spesso controproducente. L’intera umanità in questo nostro travagliato presente è percorsa e angosciata da pericolosi fremiti di ribellione dinanzi al mostruoso accrescimento di egoismi e disuguaglianze fra individui e fra popoli. Ribellione prevedibile, annunciata dalla crisi profonda di ideali e valori comuni quali quelli impostisi per oltre un trentennio nelle coscienze della maggioranza dei popoli dopo la tragedia devastante della seconda guerra mondiale. La memoria degli umani è corta, si sa. Qualcuno spesso tenta, per superficialità o cattiva coscienza, di convincere il prossimo che i tempi cambiano e quindi anche i comportamenti umani devono cambiare per adeguarsi ai tempi nuovi. Si dimentica dai più, soprattutto da tutti coloro che non vivono il pesante disagio della sopravvivenza, che ciò che non può cambiare e non può essere trascurato sono i bisogni irrinunciabili del corpo umano. L’utopia di trasformare la cultura degli interessi in cultura dei bisogni non è frutto di un capriccio della ragione e del pensiero. Il mondo umano può essere cambiato solo dal pensiero del mondo. Avere grandi ideali comuni, cari ragazzi, è inevitabile per chiunque non voglia chiudersi in uno sterile e umiliante se stesso; in un’accettazione passiva del male della disumanità per mancanza di coraggio o per indifferenza e ignoranza del prossimo. Non giudico gli atteggiamenti e le azioni di odio di tanti individui: questi fenomeni di inciviltà si giudicano da soli. Escrementi che la ragione ignora. Certo nei miei ottanta anni di vita e di esperienze non mi era ancora accaduto di dover riflettere con sgomento sulla deriva culturale contemporanea di tanta umanità: la crisi delle ideologie, l’impoverimento delle idee di socialità, lo svuotamento dei valori tradizionali di unità e solidarietà sostituiti dalla prepotente espansione planetaria di una tecnologia informatica e robotica che sta poco per volta divorando il pensiero, il linguaggio e la ragione, incoraggiando l’esplosione di un individualismo narcisistico senza freni, livellando verso il basso il senso di civile responsabilità e di umana comprensione. Come non intuire, da quanto sta accadendo, il rischio irreversibile di corrosione della dignità del lavoro e della persona e di trasformazione dell’intero pianeta in un immenso e osceno ipermercato e in un immondezzaio ecologico e morale maleodorante e pericoloso? Come non intuire, cari ragazzi, che simili rischi si abbatteranno sui desideri e le speranze di futuro di centinaia di milioni di giovani privi di salvagente? Da questo generale degrado, a cui si oppongono eroicamente quei manipoli di volontari della solidarietà sparsi per il mondo, non possiamo escludere ed assolvere la genia crescente di quei professionisti della politica che con malcelato orgoglio si definiscono riformisti di sinistra. Questi signori, perlopiù di origine e fede socialdemocratica, a cui si sono affiancati numerosi ex-comunisti delusi dall’ideologia marxista e pentiti del loro passato, ebbene questi signori, politicanti di una sinistra dal pensiero debole, che hanno sottoscritto e sostengono il riformismo socialdemocratico come unica forma di riscatto dei popoli dalla povertà e dalla disuguaglianza, criticano il sistema capitalista senza combatterlo. Non si accorgono o cinicamente fingono di non accorgersi, poveretti, di fare pienamente parte del sistema e di goderne molti vantaggi personali. Costoro hanno un alibi: sono dei realisti e in nome della realtà si impegnano senza impazienza e in forme soffici a cucire qualche toppa colorata sull’abito variopinto e geometrico della maschera artistica di arlecchino. Così presto potranno dichiarare di avere realizzato i loro progetti di riforme quando fatalmente sul costume di arlecchino non ci sarà più spazio per cucirvi altre toppe. Costoro hanno negli ultimi decenni speso troppe energie per incriminare e delegittimare la parola comunismo e tuttavia si sono appropriati di termini quali uguaglianza, unità, solidarietà, fraternità, giustizia sociale, che sono stati le fondamenta e il sangue del comunismo. Costoro hanno tentato di distanziarsi dal comunismo insistendo in modo schizofrenico sulla parola libertà e cianciando di difesa dei diritti civili e di uguaglianza nelle opportunità di partenza dei cittadini. Nelle pagine precedenti ho già ampiamente trattato questi due argomenti, libertà e pari opportunità, dimostrando l’impossibilità nel sistema capitalistico che entrambe possano realizzarsi. Fatte salve le eccezioni ovviamente, che non dimostrano nulla. Riflettiamo, cari ragazzi: in una società di uguali non potrebbero esistere i pigmalioni che decidono per te fino a quale gradino della scala dei privilegi innalzarti né potrebbero esistere i detrattori che per te decidono in quale abisso di indegnità e miseria farti precipitare. In una società di uguali ogni essere umano è pigmalione di se stesso e del proprio destino, libero e possessore di una libertà di scelte oggi drammaticamente riservata ad una stretta minoranza di nati molto bene e di protetti consolidati da questo sistema della finanza e del libero mercato che politici ed intellettuali cosiddetti di sinistra, il cui primo obiettivo dovrebbe essere quello di mobilitarsi per tutti i diseguali-vittime, pur criticando il sistema, a volte anche aspramente, nel quotidiano lo difendono vivendolo, perché in fondo la loro vita in questo sistema è sufficientemente gradevole e godibile. Il diluvio di parole e di promesse, sempre le stesse, ripetute fino allo sfinimento di chi le ascolta e prive di ogni credibilità e affidabilità, occupano e inondano senza pietà per tutti i giorni dell’anno tutti gli schermi telematici esistenti fuori e dentro le case inquinandone l’aria e la sua respirabilità. Costoro non hanno ancora metabolizzato l’amara verità secondo la quale la difesa intransigente della proprietà privata e della sua trasmissibilità agli eredi è una verità contraddetta e inconciliabile con il concetto di uguaglianza e con la nascita di una società di eguali. Proprietà privata e diritto di successione costituiscono un privilegio iniquo che cozza frontalmente con i principi inderogabili di uguaglianza e di pari opportunità su cui si fonda una società egualitaria. Non è affatto casuale che proprietà privata e sua successione costituiscano due capisaldi sostanziali del sistema capitalistico. Negli Stati Uniti, capofila indiscusso di un capitalismo esasperato, la proprietà privata è addirittura dichiarata sacra e tutelata come tale. Il filosofo Jean Jacques Rousseau, uno dei maggiori esponenti dell’Illuminismo europeo vide “il trionfo dell’inganno e della violenza” quando fu introdotto il diritto di “proprietà privata della terra” che, complici le istituzioni, consacrò l’idea culturale e l’assetto socio-economico fondati sull’inuguaglianza e sull’ingiustizia. Quell’assetto è giunto con alcuni mutamenti non determinanti fino ai nostri giorni. Ben tre rivoluzioni riuscite: francese russa e cinese non hanno avuto la forza e la saggezza di cambiarlo o meglio ribaltarlo. D’altronde ogni conquista ottenuta con la lotta armata e la violenza produce scie inestinguibili di rancori e di odi che rendono precarie le volontà e le speranze di giustizia e di pace. Jean Jacques Rousseau ha creduto sinceramente che l’essere umano nasce con buoni sentimenti che, già in giovanissima età subiscono la pressione negativa della “crescente complessità delle relazioni umane”. La tecnologia, sfruttando le scoperte instancabili della scienza, ha creato “bisogni artificiali” che ogni suo progresso tecnico ha aumentato a dismisura: la disuguaglianza ha favorito il progetto disumano dei mercenari del profitto che hanno appunto ap-profittato della tecnologia rendendola uno strumento da usare e sviluppare per il proprio vantaggio. Il problema maggiore, cari ragazzi, di questa nostra sventurata umanità, è che gli uomini d’azione posseggono tanta energia ma scarso pensiero del mondo. Mancano di visione, che è il pane dell’umanità. C’è chi su questo povero pianeta si affatica e soffre per costruire la convivenza e la pace e chi si accanisce a distruggerle. Karl Marx ha affermato che il tragico destino della vita è la lotta. È vero; e dobbiamo aggiungere: purtroppo! Ci sono umani che si realizzano attraverso la guerra, altri umani attraverso la pace. Questi ultimi sono costretti a ricostruire ciò che i primi distruggono. L’erettilità dell’uomo (homo erectus) è stata salutata entusiasticamente dalla scienza come la sua uscita dalla primitività. Osservando intorno a noi tanti individui nei loro comportamenti privati e pubblici stupisce invece dover rilevare quanto essi siano posseduti dalla loro emotività e dalle loro passioni. Ciò significa che se è evidente che gli umani camminano su due piedi, è anche evidente che molti di essi non sono ancora riusciti a sollevare il pensiero e la ragione in alto, fino alla testa. E il risultato? Una eterna e folle conflittualità che semina la terra di questo nostro disgraziato pianeta di spaventose atrocità e sofferenze. Ci scontriamo, purtroppo, con una sorta di feudalesimo risorgente radicato sui privilegi, un feudalesimo contemporaneo che non fonda più le sue pretese di potere sull’esistenza di barriere di ceto sociale ma sull’esistenza di muraglie invisibili e tuttavia impenetrabili che separano tragicamente il selettivo mondo della ricchezza da quello vastissimo e mescolato della povertà. Due mondi che non possono comunicare tra loro: per incompatibilità culturale e per le mille paure della vita e della morte che gonfiano d’ansia l’animo umano. E le eccezioni , ripeto, non fanno testo. Qualcuno ha detto che la società verticale che ancora oggi domina l’umanità ha ormai dato tutte le prove del suo viscerale malessere e corre impazzita verso l’abisso della sua autodistruzione. La globalizzazione ogni giorno più informata di questo suo destino ne accelererà la corsa. Ci vorrà del tempo, ma accadrà. Può darsi, cari ragazzi, lo spero per il vostro futuro. Io, credetemi, sono molto stanco di assistere a troppa inutile violenza. E ben sapendo di essere, senza rimpianti, prossimo alla fine del mio viaggio, tento di mettere a disposizione di voi giovani quel poco che la vita mi ha insegnato. Sperimenterete presto che il sistema capitalista che subiamo è rapace, e lo è non perché tutti coloro che aspirano al potere e vogliono arricchirsi siano rapaci, ma soltanto perché il meccanismo del sistema può sopravvivere e funzionare pompando, fino a farli scoppiare, aria avvelenata nei polmoni dell’egoismo individuale; e scatenando fra gli individui una competizione forsennata e malsana irrimediabilmente priva di quegli anticorpi che invece esistono ed agiscono con rigore nell’universo dello sport vero, approvandone e legittimandone il sano e trasparente agonismo. Il sistema capitalista, per sua natura, ha bisogno di nemici: in una comunità solidale in cui si respiri amicizia, serenità e benessere, il sistema del profitto non sarebbe ammesso e non potrebbe provocare le disumane sofferenze che impone a gran parte dell’umanità. L’esperienza mi ha insegnato che non si può comprendere la sofferenza altrui senza toccarla con mano: il che non significa gettarsi in un pozzo profondo e pieno d’acqua per sperimentare la sofferenza della vittima che vi è affogata. Può bastare il pensiero degli altri e un serio e duraturo esercizio di immedesimazione. Se governi nazionali composti da politici sensibili e sinceramente e tenacemente impegnati nel realizzare il bene comune introducessero in tutte le loro scuole pubbliche l’insegnamento obbligatorio della disciplina della “immedesimazione”, si potrebbe dare inizio, con il necessario aiuto dei volontari della solidarietà, alla costruzione culturale, pietra su pietra, fatica dopo fatica, anno dopo anno, di un cambiamento orizzontale della società fondato sui suoi bisogni materiali irrinunciabili: un cambiamento pacificante e privo di violenza, un cambiamento rigorosamente culturale. Utopia? Può darsi. L’apprendimento e l’esercizio dell’immedesimazione è il fondamento su cui riorganizzare ed edificare la struttura orizzontale di una nuova società. Una società di eguali, non piatta, anzi dinamica, in cui ogni cittadino, consapevole di lavorare per il bene di tutti, oltre ad avere il diritto di scelta del ruolo e del lavoro che ama di più, ha anche il dovere di alternarsi periodicamente in ruoli e lavori che non gradisce, che non sceglierebbe mai spontaneamente. Ad esempio: pulizia di pubblici uffici urbani, pulizia di pubbliche latrine, pulizia e riparazione delle strade urbane, manutenzione e riparazione delle strade statali e provinciali, costruzione di edifici e simili, manutenzione e riparazione delle fogne pubbliche, manutenzione dei giardini pubblici, manutenzione riparazione e pulizia degli ospedali, raccolta e smaltimento dei rifiuti. E potrei continuare nell’elenco. Per chiarire: il senso di una società di uguali è il venirsi incontro ed aiutarsi l’un l’altro, e rispettarsi, sempre, come l’imperativo giuridico e morale del bene comune prescrive. Che non può permettere, come è umanamente ovvio, che tanti nostri concittadini, come oggi accade, siano condannati a fare per l’intera loro vita un lavoro sporco, logorante e pericoloso, che hanno subito e non scelto. Un lavoro anche mal pagato che, per beffa, li relega ed umilia ai margini della società. Per una società uguale e giusta, l’immedesimazione, per esserne principio e fondamento, deve penetrare nel profondo della coscienza del cittadino, divenire un habitus mentale capace di indirizzare e governare le sue emozioni e le sue azioni. E non occorre, cari ragazzi, essere fervidi credenti in un dio per mostrare e praticare un poco di simpatia e di umana vicinanza per i nostri simili. Io, ad esempio, non sono un credente, non credo né in un Dio trascendente né in un Dio immanente, credo solo in ciò che posso vedere e toccare: sono un materialista puro insomma; eppure mi accorgo spesso di essere in sintonia con il Vangelo molto più di tanti credenti cattolici (da strapazzo e da sghignazzo come li ha definiti Dario Fo), frequentatori devoti delle chiese. Bene, cari ragazzi, concludo qui la mia opinione su questo sesto “perché” riguardante il mercato, su cui spero di avere gettato qualche fascio di luce per facilitarvi un primo, parziale approccio conoscitivo al tema. So, in queste poche ultime pagine, di avere ecceduto introducendo qualche accenno anticipatorio al nono “perché”: utopia. Può darsi. Proviamo ad elaborare insieme la visione di un mondo utopico. Voi mi chiederete: “che senso ha?”. Ed io vi risponderò: “è un gioco. Ma serio. Proviamoci. I giochi seri pensati e sviluppati con fantasia e passione possono tramutarsi in realtà. Proviamoci”. La scienza internazionale da secoli gioca con il cosmo a caccia dei suoi segreti. La sua curiosità, la sua costanza, la sua pazienza, la sua tenacia hanno compiuto scoperte considerate utopiche: l’esistenza di particelle elementari: elettroni – fotoni – neutroni – protoni; le onde elettromagnetiche, i campi magnetici, i quanti, il plasma cosmico, i buchi neri; da ultima e recentissima la scoperta ormai confermata da prove certe, delle onde gravitazionali ipotizzate da Einstein. Alcune di queste scoperte hanno reso possibile l’invenzione e la nascita di internet che ha notevolmente contribuito all’affermazione del fenomeno della globalizzazione. L’enciclopedia definisce internet “il più esteso sistema integrato di comunicazione digitale”. Ma queste realtà voi, cari ragazzi, le conoscete molto meglio di me. Dunque: vi do appuntamento al prossimo “perché” che vi inviterà a riflettere sul tema “pubblicità”. E mi permetto, per sorridere un po’, di salutarvi con poche battute: "Vivi e lascia vivere" "Non pretendere di vivere anche la vita degli altri" "Raffredda l'eccesso dei tuoi desideri" "Magari fatti uno shampoo" come suggerirebbe il cantautore Giorgio Gaber, se fosse ancora vivo