5. MERITOCRAZIA

Perché ci si accanisce sulla parola meritocrazia?

L'opinione dell'Autore

P arlare di meritocrazia è compito molto, molto difficile, direi quasi arduo. Si rischia di intaccare e di ferire il nervo più intimo e più sensibile dell’individuo: l’amore di sé, l’amor proprio. Ma la meritocrazia è anche un comandamento culturale fondativo delle strutture portanti e delle leggi delle società democratiche, è una sorta di habitus mentale a cui ogni buon cittadino deve uniformare il proprio stile di vita e le proprie azioni. Definita così la meritocrazia appare un concetto plausibile: il potere benefico del merito. Chi può affermare che non sia giusto premiare il merito? Il merito va premiato! Incontestabilmente! Il problema nasce quando diventa necessario in primo luogo distinguere tra più idee di democrazia. Primo esempio: l’idea che il singolo individuo debba godere di una libertà quasi assoluta nel programmare e nel realizzare il proprio destino. Il ruolo che egli avrà all’interno e all’esterno della società in cui vive sarà merito o demerito soltanto suo. Gli unici limiti alla sua libertà di inventarsi e di agire sono dovuti all’obbligo ancora più rigoroso di aderire e uniformarsi alle leggi del mercato in cui egli, se sarà capace, potrà costruirsi un futuro di costruttore di ricchezza. Sto parlando dell’idea e del modello democratico di vita statunitensi. Le cui priorità qualitative, individualismo, capacità di iniziativa, creatività, mostrano il marchio indelebile del primato indiscusso dell’economia su ogni altra attività. Ogni sforzo umano deve tendere alla produzione di ricchezza materiale. La ricerca scientifica più apprezzata e finanziata è quella che ha ricadute pratiche sulla vita delle persone: deve anche essa produrre danaro. La povertà è considerata una colpa e come tale incriminata. Il sentimento più benevolo nei confronti del povero è l’indifferenza. Ci racconta il serio ed informato giornalista Federico Rampini che nella città di New York dove vive e lavora la maggior quantità di miliardari americani, sopravvivono come cani randagi quarantacinquemila persone senza tetto. Un numero destinato ad aumentare vistosamente. La quotidianità frenetica e ferocemente competitiva non consente ai cittadini di una città tanto ricca di soffermarsi su una condizione umana così oltraggiosa dell’umanità stessa. Viene istintivo, spontaneo, chiedersi se ha senso definire democratica una società cosiffatta. La democrazia ovvero il governo del popolo esige che ogni cittadino operi per il bene comune; cioè per il benessere di tutti i membri della comunità nazionale. Come si può spiegare e giustificare allora che il cittadino che non può permettersi di pagarsi una assicurazione privata non abbia accesso alla sanità nazionale? Brutalmente: non può curarsi. Una sanità nazionale occupata e dominata dal capitale privato e guidata ferreamente lungo l’autostrada unica del profitto non può accettare i concetti di uguaglianza e di solidarietà. Una democrazia dell’interesse e del profitto ama e pratica concetti concreti, di solida materialità. E’ una democrazia coerentemente pragmatica. Non può farsi trascinare e irretire da parole di demoniaca spiritualità missionaria. Questo modello di democrazia è limpidamente diseguale e curiosamente mistico: si offende Dio continuamente nell’esercizio consapevole del disprezzo e dell’esclusione dei più deboli e tuttavia con una mano sul cuore e l’altra sulla Bibbia si invoca ritualmente Dio perché vegli sempre sulla grandezza della Nazione americana. Secondo esempio: la democrazia britannica, la più antica dell’Europa moderna. Secondo gli storici seconda solo alla democrazia dell’antica Grecia, quella dell’Atene di Pericle. Due sono gli aspetti identitari che caratterizzano la democrazia della Gran Bretagna.: l’originalità, che affonda le sue granitiche fondamenta nel culto mai dubbioso della tradizione; e l’anacronismo, che si esprime nell’accettazione tranquilla di due organi costituzionali ormai fuori tempo e un po’ contraddittori: la Monarchia inglese e la Camera dei Lords. La Monarchia ha rappresentato con rigore per secoli l’unità e l’identità della nazione: perduto ogni potere reale, con l’affermarsi del sistema democratico, ha conservato quest’unico potere di rappresentanza planetaria che per la maggioranza dei britannici costituisce un forte segno di continuità. Discutibile, mi sembra, l’ereditarietà del ruolo di Re o di Regina che da secoli è privilegio assoluto di poche dinastie regnanti incrociate da legami di parentela. Incompatibile con i principi di una democrazia matura è la tenacissima sopravvivenza della Camera dei Lords che neppure il culto della tradizione può giustificare. Benché questa Camera Alta, composta dalla casta blasonata degli aristocratici e da alcune alte cariche istituzionali, abbia dovuto cedere il proprio potere politico alla Camera dei Comuni, conserva ancora enormi privilegi. Se si considera che la carica di membro della Camera dei Lords si trasmette ai discendenti per diritto ereditario e se si considera che la casta dei Lords possiede in danaro e possedimenti immobiliari la maggior parte della ricchezza del regno, si può facilmente concludere che la democrazia britannica è di fatto una democrazia schiacciata e commissariata dal macigno onerosissimo del privilegio. Terzo esempio: la democrazia immatura del nostro paese: l’Italia. Non molto dissimile dalle democrazie di altri Paesi dell’Europa occidentale. Ma molto più compromessa. Il Presidente dell’autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, ottimo magistrato, ha parlato della sanità italiana come di un “territorio di scorribande da parte di delinquenti di ogni risma”. Cantone, che non indaga solo il terreno della sanità pubblica, ma numerosi altri terreni pubblici anch’essi irrigati da fiumi di danaro, tutti terreni minati, ha alluso con quella frase al fenomeno endemico della corruzione: endemico, mi spiego, nel senso di un contagio diffuso a livello dirigenziale in alcune strutture istituzionali e finanziarie del paese. Penso che i cittadini comuni, la maggioranza del popolo, sia immune da questo contagio. Semplicemente ne subisce le conseguenze negative sulle proprie aspettative materiali e morali di vita. Siamo il Paese in cui parte della sua classe dirigente convive ormai da prima dell’unità d’Italia con le mafie organizzate sotto nomi o meglio sotto ditte esplicative e pittoresche: Camorra, la più antica, Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Sacra Corona Unita, la più recente. In fatto di illegalità il nostro Paese, patria del diritto, non ha affatto sofferto di complessi di inferiorità. Persino la nostra Repubblica, malgrado la riconosciuta qualità di statuizione dei diritti e dei doveri di cittadinanza della nostra Costituzione e malgrado l’ostinato ed efficace impegno delle forze politiche di sinistra nel rendere operativi sia gli uni che gli altri, uguaglianza e cittadinanza attiva sono rimaste incompiute. Unico dato positivo, da non sottovalutare, è la coscienza acquisita da tutti gli italiani di non essere più sudditi o servi, ma cittadini. Il problema purtroppo è che la coscienza da sola non basta, la cittadinanza deve essere attiva, deve esercitarsi quotidianamente sino a divenire costume di civile comportamento e capacità di convivenza. E in questo i miei connazionali non posso, per tante esperienze vissute, affermare che eccellano. Ho esercitato per qualche anno la professione legale e ho dovuto scoprire con rammarico il grado elevatissimo di litigiosità degli italiani: tribunali e procure soffocati da migliaia di nuovi ricorsi, denunce, querele, e da una quantità sproporzionata di cause civili e penali in corso. Sproporzionata rispetto al buonsenso ma proporzionata alla società e civiltà degli interessi imperanti e al temperamento troppo umorale del nostro popolo. Non è un caso che in Italia esista un numero di avvocati di gran lunga superiore a quello operante in ciascun altro paese d’Europa. Ricordo ancora con disorientamento un cliente di mezza età, discretamente ricco di risorse economiche e di aggressività, che pretendeva di avviare cause costose per discutibili questioni di principio e irrefrenabili impulsi di personale antipatia. Ho potuto spesso constatare che l’anziano cliente non era affatto un caso isolato. Individualisti e conflittuali per lunga storia e cultura i miei connazionali sono nella loro quasi totalità di popolo dolorosamente insensibili ai concetti di uguaglianza e di solidarietà. Malgrado l’impegno instancabile di un volontariato animato da uno spirito di vera umanità. E non deve ingannare la generosità con cui tanti cittadini aderiscono alle troppe campagne di beneficenza: trattasi spesso di generosità una tantum, a tempo, che indossa l’abito peloso della carità e non l’abito limpido, trasparente, abituale della solidarietà. Uguaglianza e solidarietà presuppongono un radicale ribaltamento culturale. Non basta la convinzione che l’una e l’altra siano valori dell’umanità, non basta un processo culturale che invada il cervello, che sia soltanto mentale; è inevitabile, perché sia un cambiamento sincero, profondo e duraturo, che diventi organico, che penetri stabilmente nel cuore, nello stomaco, nel fegato, nei polmoni, nei reni, nelle viscere. Occorre che la convinzione si trasformi in passione. Più indietro ho scritto che nelle scuole bisognerebbe insegnare e sperimentare l’immedesimazione. Se ogni scolaro, stimolato da forti influssi di autosuggestione, riuscisse a scuotere tutti i propri sensi recitando la terribile sofferenza fisica e morale di un senzatetto e l’immaginabile angoscia di un migrante che sta per affogare, ebbene quello scolaro imparerebbe ad essere un animale umano più sociale e solidale. Certo la vita vera è molto più forte ed istruttiva della finzione. Ricordo il racconto di un pescatore siciliano che nel mare mediterraneo in tempesta riuscì ad afferrare la mano di una giovane ragazza scaraventata in acqua dal barcone di migranti travolto dalle onde. Nel raccontare, la voce del pescatore tremava. Compì sforzi inauditi per tirare la ragazza sul ponte del suo peschereccio. Quando la violenza delle acque e del vento vinse la resistenza di entrambi e strappò la presa, il pescatore vide il terrore negli occhi di quel corpo che si stava allontanando dalla vita. Il terrore di quegli occhi gli si era conficcato nel cuore. La realtà della vita è molto più forte della finzione, e tuttavia la finzione, quando è vissuta con dedizione, può avvicinarsi sensibilmente alla realtà. Il teatro, il cinema, la danza, la musica, soprattutto le arti dello spettacolo dal vivo possono adempiere con qualche efficacia il lavoro di immedesimazione nelle scuole. Purché partano dalla realtà, dalla cultura dei bisogni irrinunciabili dell’uomo. E non cadano nel tranello sempre in agguato della vanità, dell’egocentrismo, dell’esibizionismo personali. Fin quando non inizierà il cammino della cultura dei bisogni, se mai avrà inizio, la democrazia italiana continuerà ad essere immatura ed i miei connazionali continueranno a stragrande maggioranza a fregarsene dell’uguaglianza e della solidarietà, cioè del bene comune, e continueranno a lamentarsi dei macroscopici guasti politici e sociali che il sistema culturale degli interessi, dominante, produce ineluttabilmente. Ma di questo parlerò più puntualmente in seguito. Torno, cari ragazzi, ad affrontare il tema di questo perché: la meritocrazia. Valore tipico delle democrazie occidentali, che non presenta però una fisionomia univoca: ciascun paese occidentale lo interpreta a modo suo. E, se confrontate tra loro, le varie interpretazioni possono mostrare non pochi segni di contraddizione. Io cercherò di parlare del mio Paese che, un po’ per esperienza diretta e un po’ per lunga riflessione, mi salva abbastanza dal rischio di superficialità. Cari ragazzi, tutte le statistiche internazionali accusano l’Italia di essere uno dei paesi più ingiusti, più divisivi e più escludenti. Dopo la seconda guerra mondiale l’avvento della Repubblica e la necessità di ricostruire un paese devastato ci aveva illusi che un’Italia più uguale fosse possibile. Per un trentennio lo abbiamo sperato: tanti figli di contadini e di operai e tanti figli di famiglie disgregate poterono studiare, diventare buoni professionisti, realizzare il sogno di un riscatto sociale non effimero. Poi è ricominciato il gioco secolare dei distinguo, il vizio dell’individualismo narcisistico e delle appartenenze di classe non più fondate sulla tradizione dei blasoni e dei casati, ma su una nuova forma di aristocrazia, quella della produttività e del danaro. Con l’era industriale è nata e si è imposta una nuova classe, quella imprenditoriale, incoraggiata e sostenuta dallo stato; classe che, a poco a poco, acquistando consapevolezza della propria forza ha assunto nei confronti del resto della società nazionale la grinta e il ghigno della razza padrona. Per questa razza di nuovi padroni restituire piena legittimità al concetto di meritocrazia, impossessandosene, ha costituito e costituisce una potente arma di difesa. Sotto il concetto, infatti, si intende affermare senza, secondo i nuovi padroni, possibilità di replica: “io imprenditore ho meritato ciò che ho intrapreso e conquistato”. Ebbene, sprechiamo qualche riflessione sulla verità di tale affermazione. Attraverso un gioco di similitudine e di attribuzione. Poiché parliamo di esseri umani, prendiamo un corpo umano di uomo e distinguiamolo nelle sue parti vitali: la testa, il torace, il diaframma, l’addome, i piedi. Non prendo in esame il corpo della donna: la sua funzione di creare la vita lo rende un corpo più complesso e più nobile. Ogni parte del corpo indicata la immaginiamo abitabile e la assegniamo ciascuna a gruppi di categorie di cui è composta la nostra società. La testa è la cima del corpo, è la sede delle funzioni di guida del corpo intero e dunque deve essere abitata da individui che hanno meritato e meritano ruoli di grande responsabilità nella struttura istituzionale dello stato. Insomma tutte le istituzioni pubbliche e tutti i personaggi che hanno il potere di dettare le linee generali di produzione di beni e servizi e quelle di governo e di comportamento dei cittadini. L’abitabilità del torace è assegnabile senza sforzo alla dirigenza burocratica della pubblica amministrazione e a tutte le professioni civili pubbliche e private riconosciute dalla costituzione e regolamentate da leggi dello stato; professioni autonome che hanno il compito delicatissimo di proposta, di critica e di mediazione tra i dettati del potere (la testa) e gli umori e i bisogni molteplici di tutti i cittadini. Il diaframma è organo singolare: ”muscolo volontario appiattito, a forma di cupola, che separa la cavità toracica dalla cavità addominale” secondo il dizionario Devoto-Oli. E qui spiego io: perché volontario? Perché si abbassa con la pressione dell’aria che l’individuo inspira e si alza per consentire di espirare l’aria inspirata. È un muscolo elastico. Al servizio docile dei nostri polmoni. Perché appiattito? Perché è una fascia muscolare elastica a stretto contatto con i polmoni. Perché a forma di cupola? Perché, abbassandosi, permette ai polmoni di inspirare quanta più aria possibile. Insomma, il diaframma è un organo passivo, di servizio e al servizio, non prende decisioni, prende solo ordini. E tuttavia è un organo vitale, preziosissimo. L’abitabilità del diaframma non può che essere assegnata all’intera, vastissima popolazione degli impiegati pubblici e privati, la categoria uniforme degli stipendiati, la cosiddetta classe media, agli albori del terzo millennio sempre più anonima e sempre più in crisi, demotivata, a volte disprezzata, dal futuro incerto e insonne. Minacciata da una tecnologia della presunta semplificazione che ogni anno di più deteriora i rapporti umani e disumanizza la società. Fino a qualche decennio fa era ancora possibile che il movimento di espirazione del diaframma spingesse qualche unità di questo popolo di mezzo, in alto, verso il territorio del torace, addolcendogli l’esistenza quotidiana. Col nuovo secolo è più probabile che il movimento di inspirazione spinga verso il basso molti membri della classe media nell’addome, centro di attuazione materiale e manuale degli organi superiori, territorio infido, primo scalino giù verso gli inferi, verso l’inferno della disoccupazione. L’addome, che è anche centro di elaborazione biologica dei rifiuti, è la casa degli operai, dei contadini, del piccolo commercio, diciamo dei salariati, che la crisi del primo decennio del ventunesimo secolo ha proiettato ancor più in un deserto di precarietà e di depressione. Per costoro il trentennio della ricostruzione postbellica è ormai diventato solo un ricordo. La voracità di una minoranza di individui ricchi, sempre più ricchi e possidenti e la globalizzazione del lavoro che ha imposto sul mercato manovalanza più a basso costo hanno determinato e continuano a determinare precarietà e disoccupazione. Persino il settore operaio dell’alta specializzazione che qui abita comincia a temere l’insicurezza del proprio futuro. E respira l’incubo di cadere nell’imbuto delle gambe per finire nel pozzo indistinto dei piedi dove s’affanna e si agita una folla smisurata di analfabeti, semianalfabeti, sottoccupati, criminali, creativi dell’espediente per sbarcare il lunario quotidiano. Su questa folla, miserabile senza colpa, si scaricano tutti gli egoismi, le inefficienze e tutti gli escrementi dell’umanità nazionale. Che la plebe napoletana, ad esempio, da tempo immemore sia costretta ad inventarsi nuovi mestieri per sopravvivere, è noto ai più anche in tanti paesi stranieri. Le voci navigano sulle ali di tante canzoni immortali. Qualche anno fa un musicista della mia compagnia di teatro, appassionato della canzone napoletana e della sua storia (aveva fatto una lunga ricerca a partire dal milleduecento sino ai nostri giorni), mi disse di essersi imbattuto anche in storie incredibili di inventività popolare. Mi raccontò di un uomo, un gigante, interamente coperto dal collo sino ai piedi da un enorme mantello nero, che, negli ultimi anni del milleottocento, attraversava ogni giorno le strade dei quartieri popolari gridando “chi vo’ fa?”. I bassi napoletani a quei tempi, e per molto tempo a venire, erano privi di servizi igienici. Il gigante nero nascondeva sotto il mantello due cessi, diciamo due bidoni di metallo, su cui due clienti, uno a sinistra ed uno a destra, contemporaneamente e coperti dall’abbondante mantello, potevano fare i loro bisogni necessari. Il nostro gigante nero, per sopravvivere, si era inventato un gabinetto ambulante. A suo modo esercitava un servizio pubblico. Ma la casistica degli espedienti creativi del popolo per non morire, a Napoli ha una sua lunga narrazione. Bene. Ora tiro le conclusioni del gioco di similitudine e di attribuzione. Riuscite ad immaginare, cari ragazzi, che testa, torace, diaframma, addome, piedi, possano mutare la collocazione che hanno nella struttura fisica del corpo umano? Che possano mutare la loro specifica funzione a vantaggio di uno degli altri organi indicati? I piedi in cui ho immaginato verosimilmente abitato dalla popolazione più sfortunata di una nazione, la cosiddetta plebe, cambierebbe volentieri la sua posizione fisica e il suo ruolo umano e sociale. Ma è impossibile che ciò accada. Salvo che si realizzi un moto di ribellione di tale violenza da disintegrare l’intera struttura materiale del corpo. Senza un terremoto devastante la testa ed i piedi non potranno mai toccarsi. E non potranno mai cambiare posizione e ruolo. Quel che resta di loro, i loro frammenti, potranno incontrarsi e mescolarsi. Potrebbe accadere un evento eccezionale che lo consenta, ma l’eccezione resta eccezione: non diventerà mai la regola, normalità della vita d’ogni giorno. La testa ed i piedi sono costretti a non incontrarsi mai, tranne che nei bambini molto piccoli che spesso portano i piedi fino alla bocca per morderli, leccarli, succhiarli. Crescendo perderanno presto questa loro virtù dell’innocenza per adattarsi al mondo degli adulti, privo tristemente della vissuta spontaneità e ingombro di distinguo, menzogne, pesanti sovrastrutture mentali, inimicizie e conflitti. Eppure si nasce tutti dalla pancia di una madre: una pancia ben curata, di seta, o una pancia ruvida per la fatica e le sofferenze del vivere. Tutti si nasce da un utero, in forma simile e uguale. Dove è la differenza? Nella nascita, che può essere un dono o una condanna. Ragazzi, riflettete: se in una famiglia uno dei figli nascesse o diventasse handicappato, a chi i genitori dedicherebbero le cure maggiori? E a chi se non al figlio o ai figli più piccoli? Le cure maggiori si riverserebbero sul figlio o sui figli più deboli. La società, che dovrebbe essere la famiglia nazionale di tutti i cittadini, al contrario penalizza ulteriormente i suoi figli più deboli emarginandoli o fingendo che non siano mai nati. La nascita purtroppo è un dono o una condanna in una società troppo egoista o indifferente nei confronti del cittadino fratello. È in una società così innaturale che ciascun cittadino consapevole della propria natura umana deve affondare la critica più severa e il proprio bisturi. In una società innaturale discutere di meritocrazia o praticarla è un esercizio inutile. In una società innaturale la meritocrazia non può esistere. Vediamo perché. Io da lungo tempo nutro incondizionata stima per Renzo Piano, l’architetto italiano che gode con merito indiscusso di un prestigio che potremmo considerare planetario. Ho ascoltato in vari canali televisivi e letto su quotidiani e riviste numerose sue interviste: ho avuto puntualmente l’impressione di seguire e giudicare non soltanto un grande professionista e un grande artista, ma un uomo equilibrato, trasparente e attento ai problemi delle disuguaglianze. Insomma un uomo consapevole di sé e degli altri. Bene. Cari ragazzi, vi sottopongo ora ad una seria riflessione: se Renzo Piano fosse nato in un basso di Napoli o in una qualsiasi periferia lercia e malfamata di una delle tante città italiane, pensate che sarebbe diventato il Renzo Piano che è oggi. Io no! E potrei fare molti altri esempi di uomini e donne prestigiosi. Nessun uomo e nessuna donna possa sfuggire alla condanna di una nascita derelitta e impietosa. E spero che nessun vostro coetaneo azzarderebbe che: “se Renzo Piano fosse nato in un basso napoletano non si chiamerebbe Renzo Piano e sarebbe una persona diversa da lui”. Una risposta superficiale tendente a sottovalutare il problema. Mio fratello maggiore, un po’ di anni fa, quando esisteva ancora il servizio militare di leva, compì il suo servizio di leva nel corpo dei bersaglieri. Ai suoi tempi il servizio militare durava un anno e mezzo. Mi raccontò che dormiva in una grande camerata con altri quarantanove commilitoni. Fraternizzò con tutti, ma in particolare con un napoletano plebeo il cui corso di studi si era interrotto alla terza elementare. Questo ragazzo aveva avuto solo il tempo di imparare a leggere e a scrivere. Figlio di una ragazza-madre, poverissima, aveva sino ad allora vissuto con la madre in un tugurio chiamato basso, che sprofondava di quasi un metro sotto il livello della strada. Dovette ben presto darsi da fare per aiutare se stesso e la madre. Divenne contrabbandiere. E compromise il suo futuro. Ebbene, mi raccontò mio fratello, questo ragazzo era di una intelligenza così viva e di una simpatia così contagiosa che l’intera camerata ne subì il fascino. E gli rese omaggio come a un capo. Dopo il servizio di leva mio fratello ne perse le tracce. E dopo un paio di anni venne a sapere che il giovane plebeo era rimasto ucciso durante una sparatoria tra contrabbandieri. La sua nascita aveva determinato le linee e i passi del suo destino. Il mondo dell’egoismo ignora il suo e i destini di milioni di altri sfortunati come lui. Un attore americano, Kevin Spacey, molto bravo ma non popolare come George Clooney, in una lunga intervista sul quotidiano italiano La Repubblica ha affermato che senza l’intervento decisivo di persona o persone influenti nessuno è in grado di salire fino agli ultimi gradini della scala sociale. Kevin Spacey è attore di età e di esperienza: assolutamente credibile. Lui stesso ha sperimentato la grande fatica per emergere dall’anonimato e non vi sarebbe riuscito se non avesse incontrato la persona di potere che ha voluto credere in lui. Un colpo di fortuna decisivo che non è capitato e non capita a tanti altri suoi colleghi altrettanto meritevoli. È evidente che ciò può accadere solo in un sistema sociale in cui la meritocrazia, al di là dei proclami, è uno dei tanti criteri di valutazione dell’individuo. E non è il più importante. Ebbene, Kevin Spacey ha tratto dalla sua esperienza professionale e di vita una soluzione lodevole e concreta: ha creato una fondazione con il compito di aiutare le aspirazioni e le speranze di tanti giovani artisti. E questa tua iniziativa, caro Kevin Spacey, è il segno inconfondibile del tuo pensiero solidale. Complimenti e buon lavoro! Potrei a questo punto continuare quasi all’infinito con esempi di denegato o ignorato merito di cui la civiltà e le democrazie occidentali sono state e sono responsabili. Farò pochi altri esempi e mi scuso, cari ragazzi, se tra questi insisterò su figure e personaggi della mia Napoli. Credo che poche città al mondo possano vantare quanto Napoli secoli di trascuratezza e di oblio. Mio padre, un mattino, era quasi l’alba, era inverno, era ancora buio, camminando lungo una strada del centro storico di Napoli debolmente illuminata vide uno spazzino giovane d’aspetto che spazzava con impegno la strada sotto il bordo del marciapiede. Nulla di singolare: un’operazione, pensò, che il giovane compiva ogni mattino, a quell’ora, per lavoro. No, non fu ciò che faceva ad attirare la sua attenzione, fu la sua voce. Lo spazzino infatti, forse per riempire il silenzio e la solitudine di quell’ora, cantava a piena voce una canzone. La voce, la sua voce era così potente ed armonica da suscitargli una irresistibile emozione. Perché questo giovanotto non è stato invitato al Festival di Sanremo? Avrebbe oscurato le tante belle voci che là si erano esibite! Ogni qualvolta mi parlava, e spesso, di questa sua piccola esperienza, io coglievo nel suo racconto la stessa emozione e la stessa indignazione. A Napoli, cari ragazzi, c’è una tradizione plurisecolare di canto popolare. È l’anima del popolo che nel canto e nella canzone sfoga la sua rabbia e le sue frustrazioni ma anche le vertigini del vivere, i suoi amori, le sue fantasie, i suoi dolori. A Napoli è difficile trovare un uomo e una donna che non sappiano cantare. Note e ritmi scorrono nel suo sangue. Ed è un bene. Musica e canzoni alleggeriscono il peso della precarietà con cui il popolo definito plebeo è costretto a convivere quotidianamente. E mitigano la fatica del lavoro umile e logorante di quei fortunati plebei che hanno conquistato un salario. I lavori più sporchi, più massacranti, più pericolosi. Lavori che i figli dei signori non farebbero neppure se sottoposti per lungo tempo a trattamenti di tortura. Una ipotesi banale, direi irreale, questa mia, perché i figli dei signori, fin dalla loro nascita sono predestinati a compiti e funzioni di elevato livello. Loro abitano nella testa del corpo umano. Tutt’al più nel torace. Sono educati al comando, istruiti alla disciplina del potere di cui domani dovranno prendere le redini. Non incontreranno mai i piedi, se non casualmente, perché tra la testa e i piedi esiste un abisso di status e di incomprensione. La meritocrazia purtroppo non può avere dimora e riconoscimento in una democrazia dove i destini individuali sono misurati e influenzati dal dono o dalla condanna di una nascita. L’abolizione del diritto ereditario materiale, morale, intellettuale, sarebbe un primo passo verso una democrazia più giusta, più equilibrata, più consapevole, più solidale. Partire tutti da zero, senza privilegi o puntelli o sponde di alcun tipo, tutti nudi ed uguali ai nastri di partenza come accade nel mondo dello sport. Il merito per essere credibile e legittimato deve essere visibile, trasparente, onesto fino al traguardo. Gli sforzi e il sudore della competizione devono potersi fotografare metro per metro e devono potersi analizzare con scrupolo investigativo e imparziale. Badate bene, cari ragazzi, io non nego affatto che anche in questo sistema di vita in cui voi ed io viviamo, offuscato da mille dubbi, esistano persone di grande valore. Affermo semplicemente che il loro valore sarebbe più limpido se non fosse inquinato da volontarie o involontarie incrostazioni. Ma permettetemi, ragazzi, di parteciparvi brevemente un affettuoso ricordo di un napoletano verace, non unico, ma impagabile per il miscuglio di sentimenti e di fragilità che ingombravano la sua personalità. Non unico, ho conosciuto molti altri giovani napoletani illetterati di talento, che sotto una teatrale sfrontatezza nascondevano una timidezza quasi patologica di cui si vergognavano. E dal cui impaccio quasi sempre riuscivano a sottrarsi con una battuta pronta e brillante. Impagabile questo napoletano verace per il suo sorriso malinconico, per la sua spontanea ironia, per la sua dolcezza mite e indifesa, un talento suo malgrado, con una spinta interiore che lo sollecitava più a sparire che ad apparire. Morte prematura la sua: povero di nascita, plebeo tra i plebei, l’umidità degli ambienti fatiscenti in cui aveva trascorso l’infanzia, l’adolescenza e parte della giovinezza gli aveva procurato alcune malformazioni organiche. C’è chi ha scritto e detto che “il talento è timido”. Verissimo nel caso di Massimo Troisi, il nostro compianto napoletano verace. Ed anche Troisi ha scalato i gradini dell’olimpo e ha luccicato tra le stelle sollevato dalla spinta potente di un personaggio che aveva voluto credere in lui. Personaggio che Troisi, timido e schivo, non aveva cercato. Ciao Massimo, morire a quarantuno anni è una beffa del destino: riposa in pace. Questo mondo assurdo non ti ha meritato per le tue qualità umane. Tu hai sognato un mondo diverso da questo: più uguale. E credo di non essere irridente se non addirittura blasfemo accostare l’immagine di vulnerabilità di Troisi all’immagine di sofferenza e fragilità intensamente umane di Cristo morto così come ce l’ha offerta lo scultore napoletano Giuseppe Sammartino nel Cristo Velato, scultura di marmo commissionatagli dal Principe Raimondo di Sangro e conservata a Napoli nella Cappella Sansevero. La statua di marmo, scolpita nel 1753, a grandezza naturale, rappresenta Gesù Cristo morto, il cui corpo è disteso su di un materasso di marmo e il cui capo è poggiato su due cuscini di marmo. Opera scultorea di per sé pregevole, la cui unicità è però nel velo di marmo che ricopre interamente il capo, il viso e il corpo del Cristo. Il sudario marmoreo lascia stupefatto e incredulo il visitatore per la sua impressionante trasparenza, trattandosi di marmo, che invece di nascondere il corpo di Gesù lo mette ancor più in evidenza. La sensibilità artistica e la maestria di Sammartino, lavorando sulle pieghe e le volute del velo a cui hanno impresso linee nervose e tormentate, hanno ottenuto il risultato inestimabile, certamente voluto, di imporre allo sguardo la sofferenza profonda che le ferite del martirio hanno procurato a quel corpo. Qualcuno ha scritto: “l’arte di Sammartino si risolve qui in un’evocazione drammatica che fa della sofferenza del Cristo il simbolo del destino e del riscatto dell’intera umanità”. La trasparenza incredibile del velo oltre a sbigottire rende del tutto manifesta la lettura del messaggio. Il Cristo Velato, che oggi è considerato uno dei più autentici e suggestivi capolavori di scultura al mondo, per tanti e tanti decenni rimase sconosciuto al grosso pubblico. Lo scultore Antonio Canova, quando visitò il Cristo Velato, rimase così turbato ed ammirato da dichiarare che avrebbe regalato dieci anni della sua vita per essere lui ad aver scolpito quell’opera straordinaria. Cari ragazzi, immaginate se Giuseppe Sammartino avesse avuto un committente come papa Giulio II: forse avremmo potuto ammirare altre sue opere degne di essere ammirate. Ciò accadeva ieri e accade ancora oggi. La sostanza è la stessa. Purtroppo lo stile di vita che il nostro mondo contemporaneo ci propone ed impone, superficiale e screditato dai troppi compromessi, fondata com’è sulla logica degli interessi, non ha alcun diritto di pretendere meritocrazia. Troppe sacche di esclusione, troppi rifiuti volontari o involontari alle pari opportunità per tutti, rendono le promesse e le azioni malate di indifferenza, di menzogne e di arroganze. E lo hanno ben capito quelle schiere di giovani del popolino che nei giorni di festa invadono Piazza Vanvitelli, la piazza più snob del Vomero, il quartiere più elegante della Napoli collinare. Sono ormai tre decenni che non torno più a Napoli: il mio è un rifiuto cosciente, meditato, doloroso. La mia città non è più quella della mia giovinezza, amabile, tollerante, generosa, solidale. Napoli oggi è una città pericolosa, difficile. Non è più disponibile alla rassegnazione. Quando un mio vecchio amico, che ancora respira l’aria napoletana, mi ha raccontato di questa domenicale e puntuale invasione giovanile plebea di una piazza storicamente considerata il salotto all’aperto della borghesia più facoltosa e raffinata, io ho sussultato visibilmente. Mi è ricomparsa come una ferita indelebile della memoria l’immagine degli scugnizzi dei quartieri spagnoli che, muti e attenti, osservavano noi figli dei signori uscire dai cancelli dell’Istituto scolastico Pontano dei Padri Gesuiti. Sono da allora trascorsi settant’anni. Che cosa è cambiato? “vedi, caro amico” mi dice “è cambiato lo stato d’animo: ieri la fine della seconda guerra mondiale suscitava in quegli scugnizzi curiosità ed aspettative. Dopo settant’anni non ci sono più gli scugnizzi. I figli del popolino hanno ben capito di essere coscientemente frodati dalla società dell’interesse. Quei giovani, oggi, nel 2017, invadono Piazza Vanvitelli per provocare ed aggredire i figli dei signori. Per far capire che non sono figli di un dio minore”. Chiudo, amareggiato, con Napoli e con i suoi eterni problemi e mi sposto a Roma per raccontarvi, cari ragazzi, di una esperienza allucinante vissuta in prima persona. Sulla via del Corso a Roma, a breve distanza da Palazzo Chigi, sede del Governo italiano, e da Monte Citorio, sede della Camera dei Deputati, c’è un grande palazzo di marmo bianco che è stato fino ai primi anni novanta del secolo scorso, la sede della segreteria e della direzione dello storico Partito Socialista Italiano. Erano gli anni settanta del 1900, gli anni della seconda segreteria di Francesco De Martino. Io non ero iscritto a quel partito ma per più di due anni ho frequentato spesso quel palazzo bianco: ero amico ed estimatore del responsabile culturale nazionale di quella segreteria, un giovane serio, intelligente, competente. Abbiamo collaborato con impegno e con ottimi risultati alla fondazione della Associazione Nazionale del Teatro di Ricerca di cui ero uno dei protagonisti. Abbiamo contrattato un ingresso costruttivo ed utile della nostra neonata Associazione nella fondamentale Associazione Generale Italiana dello Spettacolo (AGIS). Nel 1976 alla Segreteria del PSI si insediò Bettino Craxi e il mio amico in pochi mesi fu sostituito da un nuovo responsabile culturale. Tuttavia ebbi il tempo di assistere ad una vera e propria mutazione genetica di quel partito. Una mutazione drastica e rapida. Non intendo fare la cronistoria dei fatti a cui mi è accaduto di assistere. Mi limito solo a ricordare la impressione odiosa e rivoltante di alcuni comportamenti. Salendo e scendendo, ad esempio, le scale di quel palazzo bianco è capitato a me e ad altri cittadini comuni di incrociare onorevoli e senatori fedeli al nuovo corso politico. Sembravano marciare come in una parata celebrativa, rigidi ed impettiti, lo sguardo dritto tendente leggermente verso l’alto, nessun saluto e nessuna deviazione del passo, avanti senza indecisioni verso il sol dell’avvenire. Eravamo noi, cittadini comuni, a dover deviare e scompaginare il nostro passo per non essere travolti. Alcuni di quegli onorevoli e senatori divennero negli anni ottanta ministri del Governo Craxi. E contribuirono efficacemente alla inarrestabile dissoluzione di un partito nato alla fine dell’Ottocento e portatore di grandi ideali e valori. Erano giunti al potere dei giovani, baldanzosi conquistatori e il verbo governare si trasformò irrimediabilmente in comandare. La nostra democrazia subì il primo devastante scossone. Ciò che però mi sconvolse, pochi anni dopo, assistendo incredulo all’estinzione con disonore del glorioso Partito Socialista Italiano, fu scoprire la reale statura politica ed umana di alcuni di quei parlamentari che erano stati ministri e personaggi temuti ed acclamati. Più volte in pubbliche interviste ho assistito con sgomento e disgusto al pianto irrefrenabile e infantile di alcuni di loro: piangevano per la rottura irreparabile del prezioso giocattolo con cui si erano trastullati troppo a lungo e di cui avevano avuto totale possesso e disponibilità. In quelle interviste non riscontrai alcuna mea culpa o autocritica. Alcuni di quei cosiddetti personaggi avevano nutrito grande opinione di sé, una enorme autostima, avevano agito come fossero giganti, semidei, ed erano invece dei miserabili pigmei. Ma credetemi, ragazzi, nelle stanze del potere si nascondono troppi pigmei. E prima o poi finiscono per stanarsi da soli. Ed ora consentiamoci, voi ed io, di respirare a pieni polmoni l’aria pulita, salubre, fresca, che si sprigiona spontanea dall’immagine, dall’azione, dalla parola di un uomo come Gino Strada. Benché la sua opera di medico-chirurgo sia planetariamente nota ed apprezzata, in lui le qualità morali dell’essere umano sono superiori a quelle del professionista. Gino Strada è uno smisurato gigante dell’altruismo, negli ospedali suoi e di Emergency, presenti in almeno tre continenti, ha ospitato, operato e guarito gratuitamente centinaia di migliaia di persone vittime soprattutto di guerre. Figura di elevata consistenza razionale ed intellettuale, del tutto inadeguato ad una società avida e violenta nella quale è costretto a muoversi a volte con riluttanza a volte con raccapriccio, consuma ogni goccia della sua passione umana e civile per affermare principi di uguaglianza, di fratellanza, di pace. Gino Strada è uno degli esponenti più amati tra quei milioni di donne e uomini operanti in tutti i continenti, purtroppo una minoranza, che con fatica ed abnegazione cercano di ridurre gli effetti feroci, inumani dei meccanismi politico-economici governati dall’interesse e dall’uso indiscriminato della forza. Semplificando: uomini e donne che cercano di porre rimedio e ricostruire ciò che i nemici dell’umanità distruggono. Gino Strada si può definire un campione di meritocrazia, quella limpida e concreta che sbugiarda l’ostentata meritocrazia del potere, ambigua, complice e supponente. Non resta quindi che rispondere con una fragorosa pernacchia all’incredibile giudizio su Gino Strada di un certo consulente militare americano di nome Luttwak che ha definito il nostro meritevole concittadino “un utile idiota”. È opportuno, cari ragazzi,, che conosciate alcune affermazioni pubbliche di codesto individuo: “la guerra è bella”; “io ho fatto tre guerre e mi sono molto divertito”; “chi è contro la guerra, chi è per la pace è un idiota”. Codesto Luttwak, che dovrebbe essere pubblicamente definito un idiota disutile, decostruttivo, distruttivo, è invece onnipresente in quasi tutti i talkshow televisivi italiani. Pensate: addirittura se lo contendono. Ma dei vizi dell’informazione parlerò in un prossimo perché. Cari ragazzi, non lasciatevi ingannare da messaggeri di violenze, divisioni, guerre, di morte. I messaggeri di rovine si preoccupano soltanto di salvare il loro presente. Qualcuno che conosco direbbe “di salvare il loro culo”. Senza spirito di comunità, senza senso degli altri, senza cultura e difesa dei bisogni di ciascun individuo, non può esserci benessere, non può esserci pace, non può esserci il vostro futuro. Per concludere questa mia opinione della cui prolissità, ragazzi, mi scuso con voi, devo menzionare come altro buon esempio di meritocrazia Bill Gates, inventore del software, fondatore di Microsoft, il cui maggior merito non è nell’aver dato vita ad una fondazione che combatte contro la fame nel mondo e contro alcune terribili malattie, assegnandole un patrimonio di trentacinque miliardi di dollari, la metà del suo patrimonio personale, quanto nell’aver dichiarato che intendeva “restituire alla comunità globale la metà delle sue ricchezze”. Non posso ancora congedarmi da voi, cari ragazzi, perché un amico della mia età, nonno italiano anche lui, con il quale ho una certa consonanza di pensiero, mi ha insinuato nella testa il dubbio che la mia severità nel giudicare il modo di vita soprattutto occidentale possa da voi essere attribuito ad una qualche mia patologica condizione di frustrazione o pregiudizio. Ebbene, ragazzi, vi rassicuro senza indugio: io sono assolutamente in pace con la mia vita. Non ho mai avuto padroni. E ho sempre cercato coerentemente umanità imponendomi di fare del mio meglio per restituire umanità. Credete, ragazzi, ogni essere umano è unico, ha una sua specificità che non coincide con la specificità di nessun altro essere umano. Ecco perché l’incontro e il confronto con le specificità di ciascuno non può che arricchire l’esistenza umana. Purché si usi il ragionamento e non la suggestione emotiva. C’è stato un breve periodo di sei-sette anni, tra il 1968 e il 1975, che nel mondo artistico e dello spettacolo si realizzò una atmosfera felice, diffusissima, di dialogo e di collaborazioni e scambi creativi. La civiltà culturale ebbe un soprassalto di passione positiva e di sviluppo. Poi ritornarono all’assalto i barbari con i loro stupidi e controproducenti “distinguo” e l’atmosfera generale ripiombò nel grigiore e nell’ovvio. La società umana per essere libera e giusta non può essere verticale, deve essere orizzontale. La società verticale è una società malata. Ma della mia idea di società parlerò più avanti. Dunque, cari ragazzi, non ho alcuna intenzione di parlarvi dei miei eventuali meriti e demeriti pubblici, non avrebbe alcun senso avendo io deciso di dialogare con voi conservando un rigoroso anonimato. Come nonno posso però in via confidenziale farvi cenno di due segni distintivi e costanti della mia vita privata, che azzardo a definire meriti: 1) avere scelto e intrapreso, iniziando dallo zero assoluto e rischiando il mio futuro, la difficile ma per me necessaria professione artistica del teatro di prosa, che ho poi esercitato per trentacinque anni; 2) avere conquistato l’amore e la fedeltà di Marina, mia compagna di vita e di arte, attrice seria, efficace, e totalmente priva di vanità ed esibizionismo.